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martedì 21 febbraio 2012
Edvard Munch.
Munch aggiunge qualcosa di personale ad un quadro già pieno di spunti e sensazioni.
Una sera passeggiavo per un sentiero,
da una parte stava la città e sotto di me il fiordo.
Ero stanco e malato.
Mi fermai e guardai al di là del fiordo
- il sole stava tramontando -
le nuvole erano tinte di un rosso sangue.
Sentii un urlo attraversare la natura:
mi sembrò quasi di udirlo.
Dipinsi questo quadro,
dipinsi le nuvole come sangue vero.
I colori stavano urlando.
Elogio dei piedi - Erri De Luca.
Letto tanti anni fa durante una route, sulla strada, quando allo stesso tempo li maledici e li benedici, ma alla fine sono loro che ti portano avanti.
Una volta per i sentieri delle foreste Casentinesi, con il caldo e i chilogrammi (tanti) sulle spalle, per andare avanti iniziai a ripetere a me stesso questa frase:
"Un piede avanti all'altro, un piede avanti all'altro...."
e anche quella sera arrivai a destinazione grazie a loro.
Anche camminando qui per le strade di Istanbul ogni tanto guardo i miei piedi e ripenso:
"un piede avanti all'altro, un piede avanti all'altro..."
Buona lettura.
Perché reggono l'intero peso.
Perché sanno tenersi su appoggi e appigli minimi.
Perché sanno correre sugli scogli e neanche i cavalli lo sanno fare.
Perché portano via.
Perché sono la parte più prigioniera di un corpo incarcerato. E chi esce dopo molti anni deve imparare di nuovo a camminare in linea retta.
Perché sanno saltare, e non è colpa loro se più in alto nello scheletro non ci sono ali.
Perché sanno piantarsi nel mezzo delle strade come muli e fare una siepe davanti al cancello di una fabbrica.
Perché sanno giocare con la palla e sanno nuotare.
Perché per qualche popolo pratico erano unità di misura.
Perché quelli di donna facevano friggere i versi di Pushkin.
Perché gli antichi li amavano e per prima cura di ospitalità li lavavano al viandante.
Perché sanno pregare dondolandosi davanti a un muro o ripiegati indietro da un inginocchiatoio.
Perché mai capirò come fanno a correre contando su un appoggio solo.
Perché sono allegri e sanno ballare il meraviglioso tango, il croccante tip-tap, la ruffiana tarantella.
Perché non sanno accusare e non impugnano armi.
Perché sono stati crocefissi.
Perché anche quando si vorrebbe assestarli nel sedere di qualcuno, viene scrupolo che il bersaglio non meriti l'appoggio.
Perché, come le capre, amano il sale.
Perché non hanno fretta di nascere, però poi quando arriva il punto di morire scalciano in nome del corpo contro la morte.
lunedì 13 febbraio 2012
Ab urbe condita (praefatio 1-3) - Tito Livio -
Facendo "zapping" sul web sono giunto al portale wikipedia "Antica Roma".
Questa è l'introduzione.
Non storcete il naso se l'ultima frase non è proprio un esempio di "sobrietà".
Qualcuno può pensare che quell'ultima frase è semplice "captatio benevolentiae".
Grosso errore.
Questa era Roma.
Non so se valga davvero la pena raccontare fin dai primordi l'insieme della storia romana. Se anche lo sapessi, non oserei dirlo, perché mi rendo conto che si tratta di un'operazione tanto antica quanto praticata, mentre gli storici moderni o credono di poter portare qualche contributo più documentato nella narrazione dei fatti, o di poter superare la rozzezza degli antichi nel campo dello stile.
Comunque vada, sarà pur sempre degno di gratitudine il fatto che io abbia provveduto, nei limiti delle mie possibilità, a perpetuare la memoria delle gesta compiute dal più grande popolo della terra.
Il gorgo - Beppe Fenoglio -
Oggi sentivo la voglia di pubblicare qualcosa, ed ecco che salta fuori questo racconto di Beppe Fenoglio, ascoltato anni fa grazie ad un album dei CSI, in cui il testo viene letto da Giovanni Lindo Ferretti con una voce e un arpeggio come sottofondo da far venire i brividi.
Propongo però una lettura individuale, con la propria voce interiore.
Ognuno avrà i suoi personali brividi.
Nostro
padre si decise per il gorgo, e in tutta la nostra grossa famiglia soltanto io
lo capii, che avevo nove anni ed ero l’ultimo.
In
quel tempo stavamo ancora tutti insieme, salvo Eugenio che era via a far la
guerra d’Abissinia. Quando nostra sorella penultima si ammala. Mandammo per il
medico di Niella e alla seconda visita disse che non ce ne capiva niente;
chiamammo il medico di Murazzano ed anche lui non le conosceva il male; venne
quello di Feisoglio e tutt’e tre dissero che la malattia era al di sopra della
loro scienza.
Deperivamo
anche noi accanto a lei, e la sua febbre ci scaldava come un braciere, quando
ci chinavamo su di lei per cercar di capire a che punto era. Fra quello che
soffriva e le spese, nostra madre arrivò a comandarci di pregare il Signore che
ce la portasse via; ma lei durava, solo piú grossa un dito e lamentandosi
sempre come un’agnella.
Come
se non bastasse, si aggiunse il batticuore per Eugenio, dal quale non
ricevevamo piú posta. Tutte le mattine correvo in canonica a farmi dire dal
parroco cosa c’era sulla prima pagina del giornale, e tornavo a casa a
raccontare che erano in corso coi mori le piú grandi battaglie. Cominciammo a
recitare il rosario anche per lui, tutte le sere, con la testa tra le mani.
Uno
di quei giorni, nostro padre si leva da tavola e dice con la sua voce ordinaria:
Scendo fino al Belbo, a voltare quelle fascine
che m’hanno preso la pioggia.
Non
so come, ma io capii a volo che andava a finirsi nell’acqua, e mi atterrì,
guardando in giro, vedere che nessun altro aveva avuto la mia ispirazione:
nemmeno nostra madre fece il più piccolo gesto, seguitò a pulire il paiolo, e
sì che conosceva il suo uomo come se fosse il pri¬mo dei suoi figli. Eppure non
diedi l’allarme, come se sapessi che lo avrei salvato solo se facessi tutto da
me.
Gli
uscii dietro che lui, pigliato il forcone, cominciava a scender dall’aia. Mi
misi per il suo sentiero, ma mi staccava a solo camminare, e così dovetti
buttarmi a una mezza corsa. Mi sentí, mi riconobbe dal peso del passo, ma non
si voltò e mi disse di tornarmene a casa, con una voce rauca ma di scarso
comando. Non gli ubbidii. Allora, venti passi piú sotto, mi ripeté di
tornarmene su ma stavolta con la voce che metteva coi miei fratelli piú grandi,
quando si azzardavano a contraddirlo in qualcosa .
Mi
spaventò, ma non mi fermai. Lui si lasciò raggiungere e quando mi sentí al suo
fianco con una mano mi fece girare come una trottola e poi mi sparò un calcio
dietro che mi sbatté tre passi su.
Mi
rialzai e di nuovo dietro. Ma adesso ero piú sicuro che ce l’avrei fatta ad
impedirglielo, e mi venne da urlare verso casa, ma ne eravamo già troppo
lontani. Avessi visto un uomo lí intorno, mi sarei lasciato andare a pregarlo:
“Voi, per carità, parlate a mio padre. Ditegli qualcosa”, ma non vedevo una
testa d’uomo, in tutta la conca.
Eravamo
quasi in piano, dove si sentiva già chiara l’acqua di Belbo correre tra le
canne. A questo punto lui si voltò, si scese il forcone dalla spalla e cominciò
a mostrarmelo come si fa con le bestie feroci. Non posso dire che faccia
avesse, perché guardavo solo i denti del forcone che mi ballavano a tre dita
dal petto, e sopratutto perché non mi sentivo di alzargli gli occhi in faccia,
per la vergogna di vederlo come nudo.
Ma
arrivammo insieme alle nostre fascine. Il gorgo era subito lí, dietro un fitto
di felci, e la sua acqua ferma sembrava la pelle d’un serpente. Mio padre, la
sua testa era protesa, i suoi occhi puntati al gorgo ed allora allargai il
petto per urlare. In quell’attimo lui ficcò il forcone nella prima fascina. E
le voltò tutte, ma con una lentezza infinita, come se sognasse. E quando l’ebbe
voltate tutte tirò un sospiro tale che si allungò d’un palmo. Poi si girò.
Stavolta lo guardai, e gli vidi la faccia che aveva tutte le volte che
rincasava da una festa con una sbronza fina.
Tornammo
su, con lui che si sforzava di salire adagio, per non perdermi d’un passo, e mi
teneva sulla spalla la mano libera dal forcone ed ogni tanto mi grattava col
pollice, ma leggero come una formica, tra i due nervi che abbiamo dietro il
collo.