di Marco Campagna
Eccoci di nuovo a parlare di “shale-gas
con le bolle” come lo chiamai qualche tempo fa.
Nel mio articolo precedente
parlavo del fatto che, secondo alcuni esperti (Andy Hall, guru del trading, in
primis), negli anni passati ci sia stata fin troppa fiducia sui rendimenti attesi dei pozzi di shale gas e
shale oil americani, e che questa sovrastima (stimata dal Post Carbon Institute
tra il 100% e il 500% della produzione realmente registrata) abbia portato alla
formazione di una “bolla” non troppo dissimile dall’altra ben più famosa bolla
dei sub-prime. Infatti, secondo Hall ma anche per il Fondo Monetario
Internazionale, il repentino declino della produzione dei pozzi avrebbe potuto
generare la necessità di aumentare la trivellazione di pozzi fino ad un livello
insostenibile economicamente, generando inoltre la diffusione di prodotti
finanziari di copertura che, se nelle mani sbagliate, avrebbero potuto fare
qualche danno inaspettato. Fatto il “riassunto della puntata precedente”, che
può essere letta integralmente qui,
passiamo alle novità degli ultimi giorni.
Da una recente analisi targata
Bloomberg, nei primi sei mesi del 2013 il mercato nordamericano degli asset oil
& gas si è dimezzato rispetto allo stesso periodo dell'anno scorso,
passando da 54 a 26 miliardi di dollari. Compagnie importanti come BHP e Shell
hanno drasticamente ridimensionato i loro investimenti in shale gas e shale
oil. Sembra che la corsa a questi “fossili non convenzionali” negli USA inizi a
rallentare, e qualcuno inizia a chiedersi se gas e petrolio da scisti siano
veramente in grado di mantenere le promesse di prosperità di poco tempo fa.
Anche evitando inutili catastrofismi,
è però innegabile che, un po’ per il fatto che i prezzi del gas negli Usa siano
scesi nel 2012 a causa (o grazie a, dipende dai punti di vista)
dell'oversupply, e un po’ perché in effetti alcuni pozzi stiano rendendo meno
del previsto, si è verificata una contrazione di investimenti, facendo così
calare il valore degli asset. Dopo i record degli ultimi tre anni il volume
degli asset energetici scambiati sul mercato nordamericano ha toccato il minimo
dal 2004.
Le aziende si stanno concentrando
sullo sfruttamento dei progetti già operativi e si sono praticamente fermate
sul fronte nuove acquisizioni: oltre al fatto che, a mio avviso, ci sia una normale fase di assestamento successiva ad un
boom iniziale, secondo gli analisti il motivo di questo slowdown è dovuto alla difficoltà di giustificare nuovi
investimenti, dato che i giacimenti ottenuti nella corsa avvenuta dal 2009 al
2012 attualmente come valore sono ben al di sotto del prezzo cui sono stati
acquistati. Insomma, dopo il boom del 2008-2012, per la prima volta da quando
si sono diffuse le tecniche di trivellazione che permettono di ottenere gas e
petrolio dagli scisti, gli investimenti in shale gas sono calati.
Questo rallentamento, osserva
Bloomberg, potrebbe durare per anni e minaccia di ostacolare la crescita della
produzione di gas e petrolio. Le aziende che hanno investito nello shale nel
rush degli ultimi 3 anni, ora con gli asset che valgono meno di quanto si
prevedeva, si trovano a corto di risorse per finanziare nuove trivellazioni.
Più i produttori sono indebitati e costretti a vendere asset per finanziarsi,
più il valore di questi calerà.
Il tutto fa quindi tornare in
mente le previsioni di Andy Hall e del FMI di qualche tempo fa, ovvero che
forse si stava riponendo fin troppa fiducia nel petrolio e gas da scisti,
gonfiando così una nuova bolla finanziaria.
Fin qui le “cattive notizie” per lo
shale-gas e oil, ma, facendo un “volo pindarico” fino alla crisi siriana, c’è
invece chi vede good news all’orizzonte.
Nick
Butler, del Financial Times, espone la possibilità che la bollente
situazione in Siria possa rafforzare la “causa” degli idrocarburi
non-convenzionali. Butler parte dal fatto che, già in questi giorni, l’effetto
Siria si sia fatto sentire sui mercati del petrolio, facendo arrivare il Brent
a 115$/b: il motivo è ovviamente che i mercati temono l’eventualità che USA ed
Europa non riescano a fermarsi ad un mero “bombarda e fuggi”, ma che invece
accendano ancor di più il conflitto sunniti-sciiti (con asse Arabia
Saudita-Iran), rimanendovi impantanati. In effetti, che l’intervento in Siria
sia tutt’altro che ben pianificato e con chiari obbiettivi, è piuttosto
lapalissiano.
Tornando al ragionamento di
Butler, viene giustamente fatto notare che questa febbre siriana, come tante
altre, passerà velocemente e che inoltre la Siria è un attore nettamente minore
nello scenario dei produttori di petrolio e gas medio-orientali: infatti l’Europa
(primo importatore di greggio siriano) ne ha fatto facilmente a meno. Dal punto di vista globale, con la crescita
della Cina in fase di rallentamento, l’India che non sembra ancora avere quella
struttura istituzionale necessaria per attrarre gli investimenti nelle
infrastrutture necessarie a spingerne lo sviluppo, l’Europa in netto calo dei
consumi e gli USA alle prese con il famoso boom degli idrocarburi non
convenzionali, il reale rischio per uno shortage
di olio o gas sul mercato è ancora decisamente basso.
Ma ecco la considerazione finale
di Butler: il più grande impatto della situazione siriana, egiziana, libica e
della meno nota situazione irachena, è che il "mondo che consuma" si stancherà
del Medio Oriente e dei suoi conflitti infiniti, vista l’importanza primaria
della sicurezza degli approvvigionamenti. Per questo gli eventi in Siria danno
un nuovo incentivo allo sviluppo di rifornimenti energetici indigeni e low-cost,
rendendo così Bashar Al-Assad il miglior sponsor per l’industria dello shale-gas.