mercoledì 30 luglio 2014

Rocco Chinnici, un uomo che andava controcorrente - di Paolo Borsellino

Questo testo è estratto dalla prima parte della prefazione di Paolo Borsellino al libro di interventi di Rocco Chinnici, "L'illegalità protetta. Attività criminose e pubblici poteri nel meridione d'Italia."
Quanta umiltà, saggezza e amore nei confronti di colui che è considerato il padre del pool antimafia che istituirà il primo maxiprocesso contro Cosa nostra.

Buona lettura.

Ho riletto con intensa emozione questi brevi scritti di Rocco Chinnici, che mi hanno fatto ricordare altri suoi interventi pubblici e tante altre conversazioni quotidiane che avevo con lui, di cui purtroppo è rimasta traccia solo nella mia memoria ed in quella di coloro che ebbero la fortuna di ascoltarlo.
Rocco fu assassinato nel luglio del 1983, agli inizi di questo decennio, quando ancora erano grandemente lacunose le concrete conoscenze sul fenomeno mafioso, che non era stato ancora visitato dall’interno, come poi fu possibile nella stagione dei “pentiti”.
Eppure la sua capacità di analisi e le sue intuizioni gli avevano permesso già nel 1981 (è questo l’anno di ben tre dei quattro scritti pubblicati) di formarsi una visione del fenomeno mafioso che non si discosta affatto da quella che oggi ne abbiamo, col supporto però di tanto rilevanti acquisizioni probatorie, passate al vaglio delle verifiche dibattimentali.
Le dimensioni gigantesche della organizzazione, la sua estrema pericolosità, gli ingentissimi capitali gestiti, i collegamenti con le organizzazioni di oltreoceano e con quelle similari di altre regioni d’Italia, le peculiarità del rapporto mafia-politica, la droga ed i suoi effetti devastanti, l’inadeguatezza della legislazione: c’è già tutto in questi scritti di Chinnici, risalenti ad un periodo in cui scarse erano le generali conoscenze ed ancora profonda e radicata la disattenzione o, più pericolosa, la tentazione, sempre ricorrente, alla convivenza. 
Eppure, né generale disattenzione né la pericolosa e diffusa tentazione alla convivenza col fenomeno mafioso, spesso confinante con la collusione, scoraggiarono mai quest’uomo, che aveva, come una volta mi disse, la “religione del lavoro”.
Egli era divenuto, alla fine degli anni ‘70, dirigente dell’ufficio istruzione del Tribunale di Palermo. E proprio in quegli anni divampò la così detta “guerra di mafia” e si verificarono, non i primi, ma sicuramente i più clamorosi delitti eccellenti.
A capo della struttura giudiziaria più esposta d’Italia, si prefisse di potenziarla opportunamente e renderla efficace strumento di quelle indagini nei confronti della criminalità organizzata, troppo a lungo trascurate in precedenza.
Uno per uno ci scelse: noi magistrati che solo dopo la sua morte avremmo costituito il così detto “pool antimafia”. Ci prospettò lucidamente le difficoltà ed i pericoli del lavoro che intendeva affidarci, ci assistette e ci spronò a superare diffidenze e condizionamenti: ché allora, con carica non meno insidiosa dell’arrogante tracotanza di oggi, così si manifestavano gli ostacoli frapposti dalla “palude” al nostro lavoro. 
Credeva fermamente nella necessità del lavoro di équipe e ne tentò i primi difficili esperimenti, sempre comunque curando che si instaurasse un clima di piena e reciproca collaborazione e di circolazione di informazioni fra i “suoi” giudici. Per suo merito, nell’estate del 1983, si erano realizzate, pur nell’assenza di una idonea regolamentazione legislativa, ancora oggi mancante, tutte le condizioni per la creazione del pool antimafia, che, infatti, subito dopo fu possibile realizzare sotto la direzione di Antonino Caponnetto, il quale continuò meritoriamente l’opera di Rocco Chinnici e ne realizzò il disegno, pur avendo una personalità completamente diversa dall’altro, ma animato da eguale tensione morale e spirito di sacrificio.
Un sereno spirito di sacrificio animò sempre la vita di Rocco Chinnici, il quale non cessò mai di essere consapevole, molto più di quanto sia ragionevole credere, dell’altissimo rischio personale connesso alla sua attività. Egli “sapeva” che la stessa sua vita era un pericolo per le organizzazioni mafiose ed i loro fiancheggiatori e quindi ben presagiva la sua fine. Sapeva che con la sua uccisione si sarebbe tentato di spazzar via le conoscenze e la sua volontà di riscatto e lucidamente non si stancò mai di trasmettere le une ed infondere l’altra sia ai suoi più stretti collaboratori sia a chiunque con cui potesse venire in contatto. E ciò faceva quasi affannosamente, pressato dall’urgenza dei tempi, poiché sentiva montare attorno a lui la minaccia che già aveva prodotto i suoi tragici effetti con Pio La Torre e Carlo Alberto Dalla Chiesa, le cui uccisioni lo avevano profondamente addolorato ma non impaurito né demotivato. 
Chi gli visse accanto in quell’ultimo tragico anno della sua esistenza sa con quale impegno ed abnegazione, giorno e notte, con orari impossibili, continuò a lavorare nell’istruzione di quel procedimento, allora detto “dei 162”, che costituì l’embrione iniziale del primo maxiprocesso alle cosche mafiose, oggi giunto alla sua seconda verifica dibattimentale.
Gli era così chiara l’unitarietà e l’interdipendenza fra tutte le famiglie mafiose e palese la connessione fra tutti i loro principali delitti (concetti che oggi fanno parte del patrimonio comune di chiunque si occupi di criminalità mafiosa, sebbene talune poco convincenti decisioni della Cassazione li abbiano posti recentemente in dubbio) che a lui risalgono la paternità o almeno l’ispirazione dei primi provvedimenti di riunione delle istruttorie sui grandi delitti di mafia. Era convinto che solo con un grande sforzo, inteso ad affrontare unitariamente l’esame del fenomeno, cercando di cogliere tutte le interconnessioni fra i grandi delitti, fosse possibile fare su di essi chiarezza, individuandone le cause e gli autori. Sforzo giudiziario reso necessario dalla inerzia investigativa del precedente decennio, la quale aveva creato un vuoto che lui ed i suoi giudici erano chiamati a colmare.
Questa fu poi la ragione ispiratrice del maxiprocesso: non astratto modello di indagine giudiziaria, non scelta fra diverse metodologie istruttorie, ma via obbligata da perseguire in quel determinato momento storico, nel quale mancava del tutto una risposta giudiziaria che costituisse punto di riferimento certo per le successive attività investigative.
Ma gli erano chiari altresì i limiti invalicabili della risposta giudiziaria alla mafia. Profondamente giudice, ben sapeva che suo compito istituzionale era esclusivamente quello di accertare l’esistenza di reati ed individuarne i colpevoli. Attività non idonea a debellare le radici socio-economiche e culturali della mafia, così profondamente inserita nella realtà del paese da trovare la forza di riprendersi, con accentuata ferocia, dopo ogni “successo” giudiziario nei suoi confronti.
Per questo non si stancò mai di ripetere, ogni volta che ne ebbe occasione, che solo un intervento globale dello Stato, nella varietà delle sue funzioni amministrative, legislative ed, in senso ampio, politiche, avrebbe potuto sicuramente incidere sulle radici della malapianta, avviando il processo del suo sdradicamento.
Sono questi concetti che oggi sentiamo continuamente ripetere nei convegni e nelle tavole rotonde e leggiamo frequentemente sulle colonne dei giornali. Ma all’inizio del decennio era già difficile fare accettare il concetto della esistenza stessa della mafia, spesso definita, ed anche in sede autorevole, “volgare delinquenza” ed è merito di pochi, e di Chinnici in prima linea, l’averne intuito la profonda essenza e pericolosità.
Analogamente dicasi per la diffusione delle droghe e della tossicodipendenza.
Forse in questa legislatura si giungerà finalmente alla modifica delle ormai inadeguate norme della legge del 1975 (aspramente criticata da Chinnici nella conferenza al Rotary Club del 29 luglio 1981), che se non ha favorito ha sicuramente consentito l’espandersi a dismisura del consumo delle sostanze stupefacenti.
Quasi dieci anni fa, in periodo di sostanziale sottovalutazione, se non di indifferenza al fenomeno, Chinnici, ben consapevole di andare contro corrente, intuì la pericolosità di una legge permissiva ed il decisivo valore della prevenzione, assumendosene in prima persona il carico. Innumerevoli furono i suoi interventi in tutte le scuole cittadine, i suoi incontri con professori e studenti, i più esposti alla diffusione del flagello, presiedendo dibattiti, partecipando a tavole rotonde, rispondendo a tutte le domande che gli venivano rivolte, sempre, come sua abitudine, citando dati a casi concreti appresi durante la sua lunghissima esperienza giudiziaria nella materia.
“Dove trova il tempo?” ci domandavamo talvolta i suoi collaboratori, che ben sapevamo come questa attività non scalfiva affatto le sue capacità di smaltire velocemente e proficuamente enormi quantità di lavoro giudiziario.
Lo trovava, lo inventava, con la sua radicata e vorrei dire religiosa convinzione che anche quello era suo indefettibile compito di cittadino; che una lunga e defatigante istruttoria su un omicidio di mafia o su un traffico internazionale di stupefacenti non avrebbe avuto senso compiuto se insieme egli non avesse profuso tra i giovani, che con la sua attività giudiziaria cercava di difendere, anche quei frutti della sua esperienza e della sua cultura che, se ben recepiti, li avrebbero messi in grado di difendersi da se stessi.
E questa lezione ai giovani è quella che ha dato più frutti. Il suo risultato è sicuramente il più stabile punto di non-ritorno dell’azione antimafia di Rocco Chinnici, proseguita poi tra mille difficoltà da Antonino Caponnetto e da molti altri, primo tra tutti Giovanni Falcone, non a caso anche lui vittima designata, e fortunatamente scampata, di analogo attentato.
Al di là dei sempre incerti esiti giudiziari delle grandi inchieste di mafia, la loro stessa celebrazione e la diffusione dei loro principi ispiratori hanno prodotto nei giovani una nuova coscienza, impensabile nelle precedenti generazioni, che rifiuta la mafia e la tentazione di convivere con essa.
Già nel luglio 1983, in una lettera al Presidente della Repubblica, pubblicata nell’appendice di questo libro, giovani studenti palermitani manifestavano fermamente il loro desiderio di liberazione ed invocavano l’intervento globale dello Stato.
Appena due anni dopo altri giovani studenti, tutti studenti palermitani, colpiti nelle loro carni dalla terribile tragedia di via Libertà, della quale chi scrive fu involontario protagonista, dimostravano, e lo dimostrano ancora, il livello della loro profonda e sofferta maturazione, non cedendo a comprensibile rabbiosa reazione ma invocando l’instaurarsi delle condizioni di una vita onesta, ordinata, civile.
Questi giovani sono gli eredi spirituali di Rocco Chinnici, che tanto amò i suoi figli ed i loro coetanei. Sono i possessori di un lascito duraturo. Ad essi si riferisce il cardinale Pappalardo nella sua omelia funebre del 30 luglio 1983: “Conosce il Signore la via dei buoni, la loro eredità durerà nei secoli”.

martedì 29 luglio 2014

Elezione di Juncker: innovazione istituzionale e "parlamentarizzazione" apparente - di Licia Gallo

Elezioni europee: se ne sono dette di tutti i colori. Alcuni hanno giustamente ricordato l'unicità di questa tornata elettorale rispetto alle passate.
Ma perchè?? Cos'avevano di così diverso queste elezioni?

Licia Gallo, con il suo articolo di oggi, ci aiuta a capirlo un po' meglio.

Buona lettura.


L'elezione di Jean-Claude Juncker ai vertici della Commissione europea può essere considerata una innovazione dal punto di vista istituzionale poiché crea un importante precedente che non potrà essere ignorato dalla futura legislatura in poi. Il Trattato di Lisbona stabilisce che il Consiglio europeo, “tenuto conto delle elezioni del Parlamento Europeo” e “deliberando a maggioranza qualificata”, propone al Parlamento europeo un candidato alla carica di presidente della Commissione. 
I nomi tra cui il Consiglio può individuare il proprio candidato non possono essere diversi da quelli presentati dai partiti al momento delle elezioni come candidati alla presidenza della Commissione. Ciò significa che i partiti europei porranno d’ora in poi un’attenzione sempre maggiore nella scelta dei candidati e che, di conseguenza, non sarà possibile per il Consiglio non tenere conto politicamente di queste preferenze. Il risultato è una, si potrebbe dire, apparente parlamentarizzazione del sistema dovuta al fatto di aver preso alla lettera il Trattato di Lisbona.

Nel corso degli ultimi avvenimenti che hanno visto protagonista Renzi in Europa, è prevalso il principio nomina sunt sequentia rerum, allo scopo di elaborare ed approvare un documento programmatico che tracciasse le priorità politiche pluriennali cui anche la Commissione (e ovviamente il suo Presidente) ed il Parlamento europeo dovessero attenersi. Tali priorità politiche, dunque, sono state decise e trascritte in un documento elaborato dal Consiglio con metodo intergovernativo (consultando i Capi di stato e di governo) e non sovranazionale, prima ancora di decidere chi nominare come presidente della Commissione. 
E’ chiaro che ciò si pone in netto contrasto con il maggiore livello di parlamentarizzazione raggiunto, un’ipocrisia malcelata. 
Il Parlamento non è stato consultato su questo tema, non si è espresso.

Lo stesso problema si pone nel coinvolgimento del Parlamento in codecisione con riguardo alle decisioni da prendere sulle risorse proprie per la realizzazione degli obiettivi di crescita a livello federale europeo, così come nello stabilire le modalità con cui spendere i fondi disponibili e indirizzarli a certe categorie di investimenti piuttosto che altre (ovvero ciò che si stabilisce con il documento di policy pluriennale).

Rispetto alle opportunità rappresentate dalla presenza di Juncker a capo della Commissione europea, bisogna considerare l’enunciazione delle priorità politiche e di intervento  dell’ex presidente dell’Eurogruppo, fatta durante il discorso che ha preceduto il voto di fiducia del Parlamento europeo. La prima priorità di Jean Claude Juncker è rafforzare la competitività e stimolare gli investimenti, quindi nei primi tre mesi presenterà un ambizioso pacchetto per lavoro, crescita e investimenti che attraverso la Bei e il bilancio europeo muoverà fino a 300 miliardi di euro in tre anni.

Inoltre, nonostante gli argomenti contrari di Cameron, la scalata di Juncker alla guida dell'esecutivo Ue è stata sostenuta dal Ppe, di cui l'ex presidente dell'Eurogruppo era il candidato, e da un blocco parlamentare formato, oltre che dai conservatori, dai socialisti e rinforzato da liberali e centristi. C’è stata dunque una forte convergenza delle maggiori forze politiche europee sulla scelta di questo candidato, che fondamentalmente rappresenta la continuità politica del sistema.

sabato 26 luglio 2014

Fragole o sangue? - di Gideon Levy

L'autore di questo articolo è Gideon Levy, giornalista israeliano. Scrive per il quotidiano Ha’aretz.
Punto di vista interessante, soprattutto perchè proviene da un israeliano. 
Inoltre è un segnale che, ovviamente, non tutti gli israeliani sono come quei quattro "strani tipi" che assistono ai bombardamenti seduti sul divano sorseggiando un aperitivo e fumando narghilè.

Buona lettura.

Dopo che abbiamo detto tutto ciò che c’è da dire sul conto di Hamas – che è integralista, che è crudele, che non riconosce Israele, che spara sui civili, che nasconde munizioni dentro le scuole e gli ospedali, che non ha fatto niente per proteggere la popolazione di Gaza – dopo che è stato detto tutto questo, e a ragione, dovremmo fermarci un attimo e ascoltare Hamas. Potrebbe perfino esserci consentito metterci nei suoi panni e forse addirittura apprezzare l’audacia e la capacità di resistenza di questo nostro acerrimo nemico, in circostanze durissime.

Invece Israele preferisce tapparsi le orecchie davanti alle richieste della controparte, anche quando queste richieste sono giuste e corrispondono agli interessi sul lungo periodo di Israele stesso. Israele preferisce colpire Hamas senza pietà e senza alcun altro scopo che la vendetta. Stavolta è particolarmente chiaro: Israele dice di non voler rovesciare Hamas (perfino Israele capisce che se lo fa si ritroverà sulla porta di casa la Somalia, altro che Hamas), ma non è disponibile ad ascoltare le sue richieste. Quelli di Hamas sono tutti “bestie”? Ammettiamo pure che sia vero, ma tanto lì stanno e lì restano, e lo pensa anche Israele. Quindi, perché non ascoltarli?

La settimana scorsa sono state pubblicate, a nome di Hamas e della Jihad islamica, dieci condizioni per un cessate il fuoco che sarebbe durato dieci anni. Possiamo anche dubitare che le richieste arrivassero davvero da quelle due organizzazioni, ma comunque erano una buona base per un accordo. Tra di esse non ce n’era neanche una che fosse priva di fondamento.

Hamas e la Jihad islamica chiedono libertà per Gaza. C’è forse una richiesta più comprensibile e lecita? Senza accettarla non c’è modo di mettere fine all’attuale ciclo di uccisioni e di evitarne un altro nel giro di pochi mesi. Nessuna operazione militare – aerea, terrestre o marittima che sia – fornirà una soluzione. Solo cambiando radicalmente atteggiamento nei confronti di Gaza si potrà garantire ciò che tutti vogliono, cioè la tranquillità.

Leggete l’elenco delle richieste e giudicate onestamente se tra di loro ce ne sia anche una sola ingiusta: ritiro dell’esercito israeliano e autorizzazione dei coltivatori a lavorare le loro terre fino al muro di sicurezza; scarcerazione di tutti i prigionieri rilasciati in cambio della liberazione di Gilad Shalit e poi arrestati; fine dell’assedio e apertura dei valichi; apertura di un porto e di un aeroporto sotto gestione Onu; ampliamento della zona di pesca; supervisione internazionale del valico di Rafah; impegno da parte di Israele a mantenere un cessate il fuoco decennale e chiusura dello spazio aereo di Gaza ai velivoli israeliani; concessione ai residenti di Gaza di permessi per visitare Gerusalemme e pregare nella moschea Al Aqsa; impegno da parte di Israele a non interferire con le decisioni politiche interne dei palestinesi, vedi la creazione di un governo di unità nazionale; infine, apertura della zona industriale di Gaza.

Queste sono condizioni civili, i mezzi per realizzarle sono militari, violenti e criminali. Ma la verità (amara) è che tutti se ne fregano di Gaza quando non spara missili contro Israele. Guardate la sorte toccata a quel dirigente palestinese che ne aveva abbastanza delle violenze, Abu Mazen: Israele ha fatto tutto quanto in suo potere per distruggerlo. E qual è la triste conclusione? “Funziona solo la forza”.

La guerra in atto è una guerra per scelta e la scelta l’abbiamo fatta noi israeliani. È vero, quando Hamas ha cominciato a sparare missili Israele non poteva non reagire. Ma contrariamente a ciò che tenta di spacciare la propaganda israeliana, i missili non sono mica piovuti dal cielo senza motivo. Basta tornare indietro di qualche mese: rottura delle trattative da parte di Israele; guerra contro Hamas in Cisgiordania in seguito all’assassinio dei tre studenti di un seminario rabbinico – è dubbio che lo abbia pianificato Hamas – e arresto di 500 suoi attivisti con false accuse; blocco dei pagamenti degli stipendi ai lavoratori di Hamas a Gaza e opposizione di Israele al governo di unità nazionale, che forse avrebbe potuto ricondurre Hamas entro l’agone politico. Chiunque pensi che Hamas avrebbe potuto incassare senza batter ciglio, probabilmente soffre di arroganza, autocompiacimento e cecità.

A Gaza – e in minor misura anche in Israele – si sta versando una quantità terrificante di sangue. Questo sangue è versato invano. Hamas è martellato da Israele e umiliato dall’Egitto. L’unica possibile soluzione sta nella direzione esattamente opposta a quella dove sta andando Israele. Un porto a Gaza, così che possa esportare le sue ottime fragole? Agli israeliani suona come un’eresia. Qui, ancora una volta, si preferisce il sangue (palestinese) alle fragole (palestinesi).

lunedì 21 luglio 2014

Biografia di Giorgio Boris Giuliano, di Emanuele Giuliano.

35 anni fa la mafia ammazzava un mio concittadino: Giorgio Boris Giuliano.
Questa breve biografia è stata scritta dal fratello, Emanuele.

Giorgio Boris Giuliano, Giorgio per noi familiari Boris per i colleghi, è nato il 22 ottobre 1930 a Piazza Armerina. Si stabilì a Messina con la sua famiglia proveniente dalla Libia nel 1941. Durante la sua vita di studente mise in luce le sue qualità sportive militando da Universitario nel campionato di pallacanestro di Serie B nella squadra del C.U.S. Messina. 

Nel 1963, vinto il concorso in Polizia, fu assegnato, su sua richiesta, alla Squadra Mobile di Palermo. Erano gli anni di quella che fu chiamata la “prima guerra di mafia” fra i Greco e i La Barbera in cui Giorgio Boris Giuliano ebbe modo di mettere in luce quelle qualità che lo portarono a essere considerato all’estero uno dei Poliziotti più bravi. Giorgio Boris Giuliano era un uomo sereno e amava la vita, amava la semplicità della vita. Amava i suoi cari ed i suoi figli, credeva nel suo lavoro che svolgeva con profondo senso del dovere mettendo in evidenza le sue peculiari doti di coraggio, acume professionale, capacità organizzative. Amava la gente convinto come era che il ruolo del “poliziotto” è quello, essenzialmente, di essere al servizio dei cittadini per dare loro, senza soluzione di continuità, una giusta dose di tranquillità; il “poliziotto”, sosteneva, deve essere nella strada in mezzo alla gente, perché è li che si insinua il pericolo criminale. 

Sul fronte del contrasto alla criminalità mafiosa la Squadra Mobile di Palermo, durante la dirigenza di Boris Giuliano, ha conseguito notevoli successi sia dal punto di vista giudiziario sia acquisendo una notevole mole di notizie di grande spessore sul piano informativo, i cui sviluppi operativi matureranno negli anni successivi. La sua alta professionalità era supportata dalla perfetta conoscenza del territorio e dell’ambiente in cui operava; dalla invidiabile conoscenza della lingua inglese, dall’avere partecipato ai corsi di specializzazione dell’E.B.I. a Quantico in Virginia che, oltre alle nozioni tecniche e alla notevole esperienza acquisita, gli consentirono di stringere legami a livello personale. Questi legami, questa stima reciproca con i colleghi americani consentirono, nel giugno del 1979, a Giorgio Boris Giuliano, di concludere una importante azione investigativa che dimostrava la certezza della sua ipotesi: che la droga destinata al mercato d’oltreoceano era raffinata a Palermo, infatti sul nastro bagagli dell’Aeroporto di Palermo furono trovate due valigie provenienti dagli Stati Uniti, contenenti seicentomila dollari; qualche giorno dopo all’aeroporto di New York ci fu la conferma del suo teorema, la D.E.A. sequestrò eroina proveniente da Palermo per un valore di dieci miliardi. L’attività di Boris Giuliano si fa sempre più travolgente e penetrante nei mesi precedenti il suo assassinio; individua e persegue gli autori di una feroce rapina ai danni della Cassa di Risparmio; gli arrestati non sono criminali comuni ma fanno parte di una delle più feroci cosche mafiose di Palermo, quella dei “Marchese” di Corso dei Mille; il rinvenimento fortuito di una rivoltella in un bar dava il via ad una operazione di polizia di grande rilievo e importanza; la scoperta di un appartamento che era il rifugio di uno dei più pericolosi criminali dei “Corleonesi”: Leoluca Bagarella, infatti trova le sue fotografie, molte armi, quattro chili di eroina pura e soprattutto una agendina con dentro tanti nomi insospettabili. Ma l’azione investigativa di Boris Giuliano era orientata verso altri obiettivi, egli aveva intuito che dietro la mafia, dietro quell’accumulazione di tesori c’erano anche le Banche in Sicilia e altrove; nell’estate del 1979 l’unico che ficcava il naso nei conti bancari dei mafiosi palermitani era Giuliano; partiva dal ritrovamento di assegni addosso a Giuseppe Di Cristina, il Boss di Riesi ucciso nel 1978; gli era capitato fra le mani un libretto al portatore della Cassa di Risparmio con trecento milioni intestato a un nome di fantasia; si scoprirà poi che quel nome era quello usato da Michele Sindona nel suo viaggio dall’America a Palermo e che il denaro era suo. E c’era un’altra indagine che Boris Giuliano non aveva mai lasciato, quella riguardante il giornalista Mauro de Mauro scomparso una sera di Settembre del 1970; aveva perfino espresso una promessa ad un giornalista, che, proprio, in quell’estate del 1979, chiedeva se il caso De Mauro fosse ormai chiuso: “No – disse – scoprirò la verità su De Mauro, arresterò i suoi assassini, quanto prima ve ne darò conferma”. 

Queste le tre azioni investigative su cui lavorava Boris Giuliano: il traffico di droga tra Palermo  e l’America, l’affare Sindona, il caso De Mauro, quale delle tre è stata determinante nella decisione della sua eliminazione?