giovedì 17 dicembre 2015

Accordo di Parigi sui cambiamenti climatici: bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto?

Il 12 dicembre si è conclusa a Parigi la 21° Conferenza delle Parti (COP21) sui cambiamenti climatici. Dopo giorni di trattative, è stato finalizzato un documento condiviso da tutti i 195 Paesi presenti a Parigi. L’accordo è stato presentato come un passo storico per tutta l’umanità, un passo decisivo per il futuro del nostro pianeta.

Dal mio modesto punto di vista, l’accordo presenta luci e ombre, un po’ come affermato, in maniera estrema, da George Monbiot sul Guardian: “By comparison to what it could have been, it’s a miracle, by comparison to what it should have been, it’s a disaster”.

In generale, comunque, mi sento tra coloro i quali vedono il bicchiere mezzo pieno. Vediamo più in dettaglio alcuni aspetti, positivi e negativi (sempre dal mio modesto punto di vista).

Partiamo dagli aspetti positivi: per la prima volta, praticamente tutti i Paesi della Terra (anche quelli in via di sviluppo), hanno condiviso l’obiettivo di limitare l’innalzamento della temperatura media globale al 2100 “ben al di sotto” di 2°C, impegnandosi per non andare oltre 1,5°C. In effetti, già il solo fatto che tale obiettivo sia stato condiviso da tutti, è un buon segnale che fa ben sperare. Tale obiettivo è stato portato avanti in particolare da una High ambition coalition, costituita dai paesi più minacciati dagli effetti dei cambiamenti climatici, dall’Unione Europea e, finalmente, anche dagli USA.

Un altro aspetto positivo è che dal 2020 i Paesi firmatari dovranno obbligatoriamente aggiornare i propri impegni nazionali di riduzione ogni 5 anni, e le modifiche potranno essere fatte solo al rialzo, cioè migliorando il livello di ambizione. A partire già dal 2018 e poi ogni 5 anni, inoltre, i Paesi dovranno riferire riguardo ai progressi fatti per raggiungere i propri obiettivi.

Passiamo ora agli aspetti che, a mio parere, non sono “completamente positivi”: nel documento non si cita mai in maniera diretta il concetto di carbon pricing, inteso come carbon tax, ma si parla però della possibilità per i Paesi di collaborare con meccanismi di mercato (e non). Questo è un riferimento a meccanismi simili al sistema ETS implementato in Europa per lo scambio di permessi di emissione, con modello cap and trade. Tale sistema non ha funzionato granchè, poiché per varie ragioni il prezzo della CO2 è a livelli bassissimi (circa 7 €/ton) non dando così un segnale di prezzo efficace per investire in tecnologie e processi a basso contenuto di carbonio. Inoltre, col sistema europeo ETS, in effetti, si è alimentato un processo di delocalizzazione delle attività industriali senza dare alcuno stimolo ai paesi emergenti ed in via di sviluppo nel processo di decarbonizzazione delle loro economie. E’ ormai chiaro che è indispensabile fissare un sistema di “carbon pricing” coerente con le regole del WTO che faccia pesare in modo uniforme a livello globale il contenuto di emissioni gas serra dei prodotti che circolano nei mercati internazionali. In un mondo con economie globalizzate, per un determinato Paese, l’unico modo per intercettare correttamente la CO2 relativa alla produzione/consumo del bene è quella di tassare il consumo del bene, visto che, come si è visto, la produzione può tranquillamente avvenire al di fuori del Paese stesso, eludendo quindi la tassazione sulla produzione. Ma in un periodo di stagnazione dei consumi come quello odierno (per noi europei), la tassazione sui consumi suona forse più come un’eresia che una vera proposta politica.
Tutto il testo dell’accordo è informato dal concetto di differenziazione degli impegni, ovvero il fatto che i Paesi in via di sviluppo possono impiegare tempi maggiori per raggiungere il picco di emissioni e hanno obblighi minori riguardo al reporting dei progressi conseguiti. Questo aspetto, seppur corretto in una certa misura poiché tali Paesi hanno il diritto di procedere nel loro sviluppo, potrebbe rivelarsi uno dei più grossi ostacoli al raggiungimento degli obiettivi di contenimento del riscaldamento: tra i Paesi in via di sviluppo ci sono infatti alcuni tra i maggiori emettitori di CO2 al mondo, come Cina e India.

Passiamo infine agli aspetti negativi: salta subito all’occhio che nell’accordo non ci sono percorsi e obiettivi quantitativi definiti di riduzione delle emissioni di CO2, ma si parla di raggiungere il picco delle emissioni “al più presto possibile” considerando la differenziazione per paesi, e raggiungere un equilibrio tra emissioni e assorbimento/rimozione di CO2 nella seconda metà del secolo (cioè tra il 2051 e il 2099), cioè la c.d. “Carbon neutrality”.
Inoltre ogni Paese può fissare i propri obiettivi di riduzione liberamente e senza una struttura standard che li renda facilmente confrontabili tra Paesi diversi. L’accounting delle riduzioni conseguite potrà essere fatto con metodologia a scelta del Paese poichè la metodologia di calcolo elaborata dalla Convenzione è facoltativa.
Infine, non sono previsti meccanismi “sanzionatori” per chi non raggiunge gli obiettivi prefissati. Quindi l’impegno di ogni singolo Paese sarà meramente volontario e non vincolante.

Rispetto a Copenaghen nel 2009, stavolta l’invio degli impegni da parte dei Paesi prima dell’inizio della Conferenza, l’assenza di meccanismi sanzionatori ed il principio di differenziazione sono stati elementi chiave per raggiungere un accordo.
In conclusione (considerando che questo appuntamento di Parigi era “too big to fail”) l’accordo è un buon punto di partenza che si spera sarà seguito da azioni coerenti, trasparenti, verificabili e che ognuno faccia veramente la propria parte.


Sull’obiettivo dei 2°/1,5°, si potrebbe aprire un’altra discussione, anche alla luce di un recente articolo apparso su Nature, di cui, per concludere, condivido la frase finale: “we need to agree how to start, not where to end mitigation”.

venerdì 30 ottobre 2015

Raggiunto nel 2014 l’obiettivo nazionale del 45% di raccolta differenziata

È stato presentato il nuovo Rapporto ISPRA sui Rifiuti Urbani, in cui si evidenzia il raggiungimento dell’obiettivo nazionale del 45% di RD, ricordando però che questo era un obiettivo europeo da raggiungere teoricamente entro il 2008. È comunque una buona notizia, come il anche il 14% in meno di rifiuti urbani smaltiti in discarica.

Disponibile, e aggiornata al 2014, la raccolta completa di open data sulla produzione e gestione dei rifiuti urbani nazionali a livello comunale. Per sapere quanti rifiuti produce il proprio comune o se li differenzia, basta collegarsi alla piattaforma  http://www.catasto-rifiuti.isprambiente.it e selezionare il proprio tra gli oltre 8000 comuni italiani. Il valore aggiunto di questa nuova banca dati è il raggiungimento del massimo livello di disaggregazione, che va dal singolo comune al dato nazionale (meno del 4% sono aggregati per comunità montana). Le informazioni sono suddivise anche per frazione merceologica (carta, legno, plastica, rifiuti elettronici ecc.) e la copertura temporale  parte  dall’anno  2010.  Tali  informazioni  sono  acquisite,  elaborate  e  pubblicate dall’ISPRA grazie al contributo delle sezioni regionali del Catasto e, in generale, di tutti i soggetti pubblici  detentori  dell'informazione,  nonché  attraverso  il  Modello  Unico  di  Dichiarazione ambientale (MUD).

Questi dati su produzione e raccolta differenziata si uniscono a quelli contenuti nel Rapporto Rifiuti Urbani dell’ISPRA, presentato a Roma presso il Ministero dell’Ambiente. Tra le tante informazioni  contenute  nel  report,  anche  i  dati  relativi  alla  gestione  dei  rifiuti  urbani  e,  in particolare, al compostaggio, alla digestione anaerobica, al trattamento meccanico biologico, all’incenerimento, allo smaltimento in discarica ed all’import/export.

La produzione dei rifiuti urbani cresce, nel 2014, di un +0,3% rispetto al 2013, parallelamente all’aumento dei consumi delle famiglie e dopo un triennio in cui si era osservata una riduzione complessiva di circa 2,9 milioni di tonnellate (-8,9%). 

Pur con 6 anni di ritardo, l’Italia ha raggiunto nel 2014 l’obiettivo del 45,2% di raccolta differenziata (13,4 milioni di tonnellate), segnando un aumento del 3% rispetto al 2013. È Confermato  il  primato  del  Nord,  ma  i  dati  mostrano  una  riduzione  del  divario  fra  le  tre macroaree del Paese: infatti, rispetto ai dati del 2013, la crescita maggiore si rileva per le regioni del Centro Italia con un aumento percentuale, tra il 2013 e il 2014, pari all’11,7% (+283 mila tonnellate); al Sud la crescita è del 7,5% (+203 mila tonnellate) mentre al Nord del 5,6% (+412 mila tonnellate).

Ben 14 province, nel 2014, presentano livelli di raccolta al di sopra del target del 65%. 11 sono localizzate nel Nord Italia, 1 nel Centro, e 2 nel Sud. I livelli più elevati di raccolta differenziata si rilevano per la provincia di Treviso, che nel 2014 supera l’80% (81,9%), e per quella di Pordenone, con il 76,8%. I più bassi livelli di raccolta differenziata, inferiori al 10%, si osservano, invece, per le province siciliane di Enna (6,1%), Palermo, Siracusa (entrambe al 7,8%) e Messina (8,4%). Si ricorda però che questi sono dati aggiornati al 2014: riguardo alla provincia di Enna, nel comune di Piazza Armerina la situazione nel 2015 è estremamente migliorata, raggiungendo una RD di oltre il 50%.

Parallelamente alla raccolta differenziata aumenta la percentuale di rifiuti riciclati. Si ricorda che la direttiva 2008/98/CE prevede un target del 50% da conseguire entro il 2020.
Nel 2014, la percentuale di preparazione per il riutilizzo e riciclaggio risulta pari a 45,2% con un aumento di 3,4 punti percentuali rispetto al 2013.

L’analisi dei dati sulla gestione dei rifiuti evidenzia che lo smaltimento in discarica interessa ancora il 31% dei rifiuti urbani prodotti, tuttavia, il riciclaggio delle diverse frazioni provenienti dalla raccolta differenziata o dagli impianti di trattamento meccanico biologico dei rifiuti urbani raggiunge, nel suo insieme, il 42% della produzione: più del 16% è costituito dal recupero di materia della frazione organica da RD (umido+verde) e oltre il 25% dal recupero delle altre frazioni merceologiche. Il 17% dei rifiuti urbani prodotti è incenerito, mentre circa il 2% viene inviato ad impianti  produttivi,  quali  i  cementifici,  per  essere  utilizzato  come  combustibile  per  produrre energia; l’1% viene utilizzato, dopo adeguato trattamento, per la ricopertura delle discariche, il 2%, costituito da rifiuti derivanti dagli impianti TMB, viene inviato a ulteriori trattamenti quali la raffinazione per la produzione di CSS o la biostabilizzazione, e l’1% è esportato (321 mila tonnellate).  Il 56,6% dei rifiuti esportati (182 mila tonnellate) viene avviato a recupero di energia, il 41,6% è recuperato sotto forma di materia (134 mila tonnellate) e solo l’1,9% (6 mila tonnellate) è sottoposto ad operazioni di smaltimento.
La percentuale di rifiuti sottoposti a trattamento prima dello smaltimento in discarica passa dal 58% del 2013 a circa il 70% del 2014; nel caso dell’incenerimento, circa il 50% dei rifiuti trattati nel 2014 è costituito da Combustibile Solido Secondario (CSS) o frazione secca.

Riguardo ai costi, nel 2014, il costo medio annuo pro capite di gestione del servizio risulta di 165,09 euro/abitante per anno, di cui 60,41 euro per la gestione dei rifiuti indifferenziati, 44,79 euro per la gestione delle raccolte differenziate, 22,39 euro per lo spazzamento stradale. Le medie dei costi sono differenti da regione a regione. A livello di macroarea geografica risultano di
148,28 euro al Nord, 208,94 euro al Centro e 165,21 euro al Sud.
Il costo unitario nazionale medio per kg di rifiuto risulta, invece, di 0,23 euro/kg per la gestione dei rifiuti indifferenziati e di 0,19 euro/kg per la gestione delle raccolte differenziate. A livello di area geografica, il costo per kg di gestione dei rifiuti indifferenziati è di 0,22 euro al Nord e al Centro e di 0,25 euro al Sud, mentre il costo di gestione dei rifiuti differenziati è di 0,15 euro al Nord, 0,22 euro al Centro e 0,26 euro al Sud.
Quindi, secondo i dati al 2014, al SUD il costo unitario per la gestione delle raccolte differenziate risulta ancora leggermente superiore al costo per la gestione dell’indifferenziato.
Se a tali costi si aggiungono i costi generali del servizio, il costo medio di gestione di 1 kg di rifiuto risulta di 0,33 euro/kg (0,30 euro al Nord, 0,37 euro al Centro e al Sud).
Estrapolando i dati dei costi unitari per abitante, si può stimare per il 2014 un costo complessivo nazionale di gestione dei servizi di igiene urbana di 10 miliardi di euro, di cui 3,8 miliardi per la gestione dei rifiuti indifferenziati, 2,7 miliardi  per le raccolte differenziate e 1,4 miliardi per lo spazzamento stradale.

domenica 6 settembre 2015

Il verbo Potere - discorso del Generale dalla Chiesa

1 maggio 1982, Il Generale Carlo Alberto dalla Chiesa, Prefetto di Palermo, incontra i Maestri del Lavoro a Palermo il giorno dopo l’assassinio di Pio La Torre.
La parte centrale del discorso, quella sul "potere", mi fa semplicemente venire i brividi.

Buona lettura. 


Signori, come titolare dell'organizzazione di questa manifestazione e non come padrone di casa, perche' il padrone di casa e' la Camera di Commercio, avrei dovuto parlare per primo per dare non solo il benvenuto ma anche l'augurio per una festa, per una manifestazione di gioia; parlo per ultimo perche' avrebbe dovuto essere tra noi il rappresentante del Governo nella persona dell'On. Mannino che, all'ultimo momento, non ha potuto venire. Parlare per ultimo non significa parlare meglio perche' molto bene hanno parlato tutti coloro che mi hanno preceduto e, per ultimo, il rappresentante della Regione, che, con tanta semplicita', con tanta vibratilita', ha detto quello che e' nell'animo di tutti noi. Avrei voluto che questa manifestazione, la prima alla quale nella mia veste nuova vado partecipando, significasse, veramente e soltanto, gioia; gioia per chi ha raggiunto un traguardo fatto di sacrifici, di rinunzie e di lavoro.
Purtroppo dobbiamo avvertire, e cogliere, e sottolineare questa atmosfera che certamente ci rende consapevoli della gravita', del gravissimo episodio che, come episodio, turba, ma, come episodio inquadrato in qualcosa di più vasto, deve scuoterci, deve renderci veramente coscienti che dobbiamo stare uniti e insieme, tutti. Se e' vero che esiste un potere, questo potere è solo quello dello Stato, delle sue istituzioni e delle sue leggi; non possiamo oltre delegare questo potere ne' ai prevaricatori, ne' ai prepotenti, ne' ai disonesti. 

Potere puo' essere un sostantivo nel nostro vocabolario ma e' anche un verbo, un verbo al quale ho sentito attingere sia dal Cavaliere del Lavoro Spadafora, sia dal Presidente dei Maestri, sia da tutti.
Potere; l'ho sentito questo verbo. Ebbene, io l'ho colto e lo voglio sottolineare in tutte le sue espressioni o almeno quelle che cosi' estemporaneamente mi vengono in mente: poter convivere, poter essere sereni, poter guardare in faccia l'interlocutore senza abbassare gli occhi, poter ridere, poter parlare, poter sentire, poter guardare in viso i nostri figli e i figli dei nostri figli senza avere la sensazione di doverci rimproverare qualcosa, poter guardare ai giovani per trasmettere loro una vita fatta di sacrifici, di rinunzie, ma di pulizia, poter sentirci tutti uniti in una convivenza, in una società che e' fatta, e' fatta di tante belle cose, ma soprattutto del lavoro, del lavoro di tanti, operai, impiegati, dirigenti, che qui oggi assommano in numero in sessanta, ma che rappresentano tutta la Sicilia, rappresentano non solo la città di Palermo, non solo questa capitale bellissima dell'isola, ma rappresentano gli angoli piu' remoti di questa Sicilia, che vuole essere buona, che vuole essere sana, che vuole essere difesa, vuole progredire, non può restare vittima di chi prevarica, di chi attraverso il potere lucra.
E occorre che tutti, gomito a gomito, ci sentiamo uniti, perche' anche chi e' animato da entusiasmo, anche chi crede, come crede colui che in questo momento vi sta parlando, ha bisogno di essere sostenuto, di essere aiutato, di sentire di vivere in mezzo a chi crede perché, tutti credendo, possiamo raggiungere la meta che auspichiamo: la tranquillita', la serenita'.

Ma non voglio dimenticare i festeggiati perche' e' da loro, dalla loro lunga parentesi di vita, dai 25 ai 40 anni, so che saranno premiati, e so cosa significano anche i 40 anni perché sono lunghi da passare, sono fatti di tormenti, di ansie, di preoccupazioni, anche di gioie e di soddisfazioni sempre piu' rare che non le prime. Ma alla fine esiste un patrimonio da trasmettere, quel patrimonio che e' fatto di sacrificio, che e' fatto di rinunzie, di tormenti, ma e' fatto anche di qualcosa che si e' costruito per gli altri, che si e' donato, che deve essere trasmesso, e che deve essere recepito nella veste migliore.
Io dico grazie, a nome del Governo, a questi bravi Maestri del Lavoro, a quelli che li hanno preceduti, a quelli che li seguiranno, perche' sul loro esempio, sul loro donare senza chiedere, sul loro procedere senza avanzare né iattanza né ribalta, noi sappiamo di poter contare su una convivenza davvero fattiva, ma anche producente di quei valori morali di cui qua oggi si e' discorso.
Non vado avanti, vi dico bravi e vi invito a credere.

venerdì 4 settembre 2015

Accogliere - di Giovanni de Mauro

Articolo di Giovanni De Mauro, sull'Internazionale.
Storie che restituiscono un senso all'idea di Europa.

Buona lettura.

Padre Efstratios Dimou è un prete ortodosso di 57 anni. Tutti lo chiamano Papa Stratis. Vive nel villaggio di Kalloni, sull’isola di Lesbo, in Grecia. “Ogni giorno arrivano tra le cento e le duecento persone”. Rifugiati che hanno bisogno di aiuto. Papa Stratis, insieme a un gruppo di volontari, gli dà pane, acqua, latte, scarpe, vestiti, coperte, lenzuola. 

Dominique Mégard ha 66 anni. È un informatico in pensione e vive nel nord della Francia. Va tutti i giorni nell’accampamento di Calais con un paio di generatori elettrici, così i migranti che vivono lì possono ricaricare i loro telefoni e restare in contatto con le famiglie.

Sarah Morpurgo coordina a Londra The bike project, un gruppo di meccanici che ripara vecchie biciclette per i rifugiati che arrivano nella capitale britannica. 

Angelique e Onno Bos erano in vacanza a Lesbo con i quattro figli. La sera prima di tornare a casa, in Olanda, hanno deciso di cancellare il volo per restare ad aiutare i rifugiati che per tutta l’estate sono sbarcati sull’isola. 

Jaz O’Hara ha 25 anni e fa su e giù tra il Kent, dove vive, e Calais, in Francia. Porta gli aiuti che raccoglie tra i suoi amici su Facebook.

Food not bombs è un gruppo di volontari che preparano da mangiare per le famiglie di migranti che arrivano a Budapest: cucinano con gli ingredienti donati dai mercati della città. 

Szeged è una città nel sud dell’Ungheria, al confine con Serbia e Romania. Decine di abitanti si sono organizzati per dare assistenza legale ai rifugiati di passaggio. Il gruppo si chiama MigSzol Szeged.

Da mesi decine di volontari si danno il cambio per preparare da mangiare al Baobab di Roma, l’unico centro d’accoglienza in Europa gestito dagli stessi migranti. 

Mareike Geiling e il suo fidanzato, Jonas Kakoschke, vivono a Berlino. Hanno lanciato un sito, Flüchtlinge willkommen, per mettere in contattoi migranti con i berlinesi che vogliono ospitarli. Più di settecento persone hanno già deciso di aprire le loro case. Fethullah Üzümcüoğlu ha 24 anni, 

Esra Polat ne ha 20. Si sono appena sposati e hanno deciso di usare tutti i soldi della lista di nozze per dare da mangiare ai rifugiati siriani di passaggio nella loro città, Kilis, nel sud della Turchia, al confine con la Siria. Nelle foto del loro matrimonio li si vede ancora vestiti a festa mentre servono da mangiare a una fila di persone. Quattromila in un pomeriggio.

In tutta Europa si moltiplicano le storie di comuni cittadini che decidono di accogliere i migranti e di aiutarli, di organizzarsi per fare quello che politici e governi dovrebbero fare ma non fanno. Sono storie che non finiscono in prima pagina e non aprono i telegiornali, ma restituiscono un senso all’idea di Europa.

giovedì 30 luglio 2015

"Io Ricordo" i morti di mafia.

Questi giorni di luglio, per un siciliano che ha un po' di memoria del passato, sono segnati anche da tanti anniversari di morti da non dimenticare: Paolo Borsellino, Boris Giuliano e Rita Atria, ad esempio.
Rita si è ammazzata il 26 luglio '92, una settimana dopo l'uccisione di Borsellino. Aveva 18 anni.
Qui sul blog ho pubblicato il suo fortissimo tema di maturità, scritto quello stesso anno, dopo l'uccisione di Falcone.

Oggi, ho trovato alcuni video che meritano veramente di essere visti.
Il primo è il trailer di "Io Ricordo" un lungometraggio di Ruggero Gabbai dove i genitori, fratelli e sorelle, gli orfani delle vittime di mafia, con un linguaggio semplicemente vero e commovente, mettono a nudo la dignità del proprio dolore e raccontano chi erano le persone che la mafia ha ucciso.



Il secondo video è una serie di spot riguardanti la campagna "ritroviamo l'onore" contro il pizzo in Sicilia. Purtroppo non sono stati trasmessi in televisione.


Sono orgoglioso di essere siciliano.
Odio la retorica e le frasi fatte, soprattutto su temi come questo, quindi non scrivo nient'altro.

venerdì 29 maggio 2015

Buonisti un cazzo

Questo articolo è di Alessandro Gilioli (l'Espresso).
La "cesura" tra cultura ed etnia che viene spiegata è realmente chiarificatoria ed utile, soprattutto per chi in contesti simili ci vive, e, a volte, non sa più cosa pensare. Ecco, in quei momenti, arriva il Salvini di turno che ti dà la risposta più rapida, più semplice, più pericolosa.
Oppure cerchi di non arrenderti al facile odio etnico, e questo articolo di Gilioli, secondo me, aiuta a continuare ad avere la "bussola etico-sociale" su come pensarla.
Per questo tentativo di non arrendersi al puro "odio tecnico", ci si può anche sentir dire buonisti, di tanto in tanto. Ecco, se vi capita, rispondete semplicemente con il titolo di questo articolo.

Buona lettura.

Questa mattina i bambini rom della baraccopoli sotto l'ospedale San Filippo Neri, a Roma, non sono andati a scuola: le famiglie avevano paura che venissero picchiati o che qualche genitore impedisse il loro ingresso in classe. In quanto rom.

Stiamo attenti, state attenti, perché quello che sta succedendo è la proiezione su un'etnia (attenzione: in quanto etnia, cioè con quei tratti e quella lingua) del comportamento criminale di altri membri dell'etnia stessa. Esattamente come se negli Stati Uniti, negli anni Trenta, i bambini figli d'italiani non fossero andati a scuola - in quanto italiani -  temendo ritorsioni per una strage compiuta dalla mafia siciliana.

Stiamo attenti, state attenti, perché la cesura è sottile ma decisiva. Ed è la cesura tra cultura (cioè usi, abitudini diffuse, codici comportamentali che si tramandano in famiglia) e appartenenza etnica, cromosomica, genetica. Il passaggio, ripeto, sembra una sciocchezza ma è dirimente ed è già avvenuto. Non solo nella peggiore destra rancida (Salvini, Libero, il Tempo) ma un po' anche a sinistra, laddove si identifica come «problema» un'etnia (un'intera etnia!), e non le abitudini comportamentali e subculturali che in quell'etnia si sono tramandate, che ovviamente  non hanno nulla di etnico e di genetico, ma sono appunto comportamentali e subculturali: pertanto si possono gradualmente estinguere solo con una contaminazione culturale, non con la criminalizzazione di un'etnia («i Rom sono la feccia della società», onorevole Gianluca Buonanno), né con la identificazione di un'etnia come problema.

Stiamo attenti, state attenti, perché il superamento più o meno consapevole e ragionato di questa membrana logica - cioè la confusione tra etnia e comportamenti culturali - non è che porta alla spartizione del campo tra leghisti e buonisti, tra legalitari e permissivisti, tra destra e sinistra. Proprio no. Porta, semplicemente, alla guerra interetnica sotto casa. Oggi con gli zingari, domani con altre minoranze. Che non gradiranno l'idea di non poter mandare il bambino a scuola perché qualcuno della loro stessa etnia ha commesso un reato. E si organizzeranno di conseguenza.

D'altro canto si sa da settant'anni che la rivolta del ghetto di Varsavia è l'unica risposta ragionevole al razzismo. E che ha avuto l'unico difetto di avvenire troppo tardi. Con i razzisti, buonisti un cazzo.

mercoledì 27 maggio 2015

Io so cos'è la fame - Settimio Damiani

100 anni dalla grande guerra. Ascoltando il BBC World Service oggi ho scoperto la storia di Settimio Damiani e del suo diario. Un diario della prima guerra mondiale. 
Propongo il breve video di Rai Storia in proposito: a molti, le ultime parole di Settimio, faranno ricordare le parole dei nostri nonni. Sembra impossibile ma è così: durante la guerra, i soldati italiani avevano un ulteriore nemico, la fame. 
La fame nera, come cantavano i Mercanti di Liquore. 

Buona visione.

lunedì 11 maggio 2015

Poesia di Felicia Impastato

9 maggio 1978, Peppino Impastato viene ammazzato.
La poesia che pubblico è della madre di Peppino, Felicia.

Buona lettura.

Chistu unn’è me figghiu.
Chisti un su li so manu
chista unn’è la so facci.
Sti quattro pizzudda di carni
un li fici iu.

Me figghiu era la vuci
chi gridava ’nta chiazza
eru lu rasolu ammulatu
di li so paroli
era la rabbia
era l’amuri
chi vulia nasciri
chi vulia crisciri.

Chistu era me figghiu
quannu era vivu,
quannu luttava cu tutti:
mafiusi, fascisti,
omini di panza
ca un vannu mancu un suordu
patri senza figghi
lupi senza pietà.

Parru cu iddu vivu
un sacciu parrari
cu li morti.
L’aspettu iornu e notti,
ora si grapi la porta
trasi, m’abbrazza,
lu chiamu, è nna so stanza
chi studìa, ora nesci,
ora torna, la facci
niura come la notti,
ma si ridi è lu suli
chi spunta pi la prima vota,
lu suli picciriddu.

Chistu unn’è me figghiu.
Stu tabbutu chinu
di pizzudda di carni
unn’è di Pippinu.

Cca dintra ci sunnu
tutti li figghi
chi un puottiru nasciri
di n’autra Sicilia.

venerdì 24 aprile 2015

Angelo Lionti, un partigiano piazzese.

Per me il 25 aprile è sempre stata una data molto importante, sarà un caso, ma è anche il giorno di San Marco.
L'intervista che segue è tratta dal libro "Per non dimenticare", raccolta di testimonianze di reduci della II guerra mondiale, curata da Ignazio Nigrelli.
Anche Piazza Armerina ha una storia della Resistenza da raccontare.

Buona lettura.

Mi chiamo Lionti Angelo e sono nato a Piazza Armerina il 25.8.20. Quando scoppiò la guerra ero già sotto le armi quale Carabiniere presso la Legione allievi a Roma, da qui fui trasferito al Gruppo Carabinieri di Pastrengo V.LE Romania: poiché si doveva costituire una sezione celere aderii volontario e ai primi di Gennaio fui trasferito in Albania presso la 384 sezione Celere. Ci imbarcammo a Bari e sbarcammo a Durazzo, eravamo una settantina di cui metà motociclisti e metà a cavallo, io appartenevo alla sezione a cavallo. Qui potei assistere, già il primo giorno di arrivo, ad un cruento bombardamento ad opera dei greci che produsse diversi danni agli alloggi ove eravamo destinati. Da Durazzo fui trasferito ad Elbasan ove cominciai il mio servizio presso il Comando dell'Armata, io fui destinato al servizio di smistamento dei prigionieri. Qui non ho nulla di particolare da evidenziare se non diversi bombardamenti perpetrati dai greci. Rimasi in Albania fino alla capitolazione della Grecia e Jugoslavia (aprile 1942), da qui il mio reparto fu trasferito in Kosovo, e precisamente a Pec, ove attualmente c'è il nostro contingente di soldati e posso dire che fummo destinati a vigilare sull'incolumità dei residenti i quali subivano continue aggressioni da parte dei serbi, così come avviene oggi. 
Successivamente siamo rientrati a Tirana, io da qui fui trasferito a Firenze ed ammesso al corso per sott'Ufficiali (ottobre 1942).Quale vice brigadiere fui destinato a Roma in forza alla stazione di Ponte Milvio prima e a Monte Mario dopo, siamo già nel 1943. Ricordo che spesso facevo servizio lungo la strada ove abitava la sig.ra Petacci. Dopo di che fui inviato a comandare un posto fisso, sempre a Roma, con oltre settanta uomini,. (aprile-maggio 1943).Da qui potei assistere alla caduta del fascismo e alla ascesa di Badoglio (25 luglio 1943). Fu proprio il mio gruppo, nella persona del maresciallo maggiore Osvaldo Antichi che ebbe l'incarico di custodire Mussolini: a tale proposito debbo dire che la scelta dell'Arma per la sua custodia fu voluta personalmente dallo stesso duce, ciò però ci alienò le simpatie dei fascisti da cui ci dovevamo continuamente guardare; diventammo un reparto a rischio in quanto preso di mira dai fascisti. Arriva così la notizia dell'armistizio. Assistetti allo smembramento del nostro esercito, chi fuggiva a destra e chi a sinistra. 
Io assieme ad altro commilitoni decidemmo di rimanere e lottare partecipando all'organizzazione che il generale dei Carabinieri Filippo Caruso aveva creato, il "centro clandestino" dei carabinieri contro l'occupazione nazista di Roma, nota come "banda Caruso", appunto. Gli ordini erano di agevolare la ritirata dei tedeschi e reagire solo nel caso in cui avessimo riscontrato resistenza. Ricordo che pur di espletare il mio dovere vivevo continuamente affrontando il pericolo e con mezzi di fortuna. Una volta dormivo in un sottoscala, un'altra dentro un tram ecc. Si sopravviveva con espedienti. Ad ogni modo riuscii a mettere assieme un gruppo di uomini, non solo Carabinieri ma anche qualche civile, e costituire una resistenza ai tedeschi che ci davano continuamente la caccia, soprattutto lo squadrone fascista di Pollastrini.. 
Ricordo diverse azioni in cui sottraemmo molte armi ai tedeschi, per esempio, il 20 settembre del 1943, con altri, riuscì ad entrare e prelevare una mitragliatrice Breda, due fucili mitragliatori con più di 2000 colpi nella polveriera dell"Acqua Traversa", già occupata dai tedeschi, il 25 settembre '43 assieme al carabiniere Antonio Ceci disarmammo due tedeschi in Viale delle Medaglie d'Oro, il 20 ottobre sempre di quell'anno rubai due mitra da una camionetta tedesca lasciata incustodita. Il 7 ottobre ero riuscito a sottrarmi alla cattura dei tedeschi e a mettere in salvo tutti i carabinieri del Posto Fisso del Forte di Monte Mario, mettendo in salvo tutte le armi in dotazione nascondendole in piccoli depositi in un bosco vicino. Il 10 ottobre del 43, dopo nuovi accordi con il maresciallo Antichi, formai la mia squadra, costituì anche un plotone di 30 civili armati abitanti a Belsito, in Viale delle Medaglie d'Oro e in via Trionfale. Il 28 ottobre del '43 mi introdussi nella sede della Legione dei Carabinieri del Lazio e portai via dei timbri per timbrare licenze false per far ottenere le carte annonarie a parte dei carabinieri sbandati. Nel dicembre del '43 riuscì impedire che un deposito di armi clandestino sotto il forte di Monte Mario venisse consegnato ai tedeschi, convincendo un maresciallo maggiore a non rivelarne l'esistenza. Alla fine del 1943 cercai di organizzare un attentato contro il maresciallo Kesserling: avevo saputo che frequentava abitualmente la villa del conte Miani requisita dai tedeschi: dopo un pedinamento e sopralluoghi, il gruppo da me preparato pronto, venni consigliato di soprassedere per non compromettere la popolazione civile, sempre a dicembre cercai di far saltare una potente stazione radio trasmittente al forte di Monte Mario, ma le bombe tedesche che dovevo usare non potevano distruggere la fortissima difesa delle strutture e dei venti uomini di guardia, perciò dovetti desistere, anche perché il tentativo fu scoperto e sparando colpi di pistola riuscì ad eclissarmi. 
Nel gennaio del 44 fui avvertito che il capitano tedesco Lank e il repubblichino Patrizi avevano disposto il mio arresto e perciò dovevo allontanarmi dalla zona di Monte Mario. Nel '44 ricordo altri episodi tra i quali il salvataggio di diversi prigionieri alleati spostandoli dalla località di Prati in una villetta di Via Flaminia; assieme all'avvocato Rodolfo Passerini e al dottore Barela accompagnammo un soldato britannico, William Harris, alla villetta, in pieno mezzogiorno, mentre i tedeschi presidiavano la zona. Nell'aprile del '44, grazie ad alcune conoscenze andai al Ministero dell'Africa Italiana e ritirai molti caricatori di mitra e diverse bombe a mano che poi nascosi nell'orto della fornaia di Belsito. Inevitabile fu la loro reazione: si intensificarono i rastrellamenti e le esecuzioni. 
Avevo trovato rifugio in via Clivo di Cinna, verso le ore 23, a causa di un tradimento anch'io, assieme ad alcuni dei miei uomini, fui arrestato; già in quel rifugio cominciarono a interrogarmi: domande e colpi di scudiscio si alternavano, ma io non volli e non potevo tradire; da lì mi ordinarono di uscire, io li precedevo di alcuni passi, perciò, riuscì di nascosto a tirare dalla tasca la nota scritta dei miei compagni e ingoiarla. Fui condotto in carcere a Regina Coeli, nel III Braccio, in una cella individuale, era il 2 maggio 1944. Qui fui più volte "interrogato" sia da italiani sia da tedeschi e picchiato selvaggiamente per farmi confessare i nomi dei miei carabinieri che lottavano contro i tedeschi. Non dissi mai una parola e a causa di ciò erano talmente i pestaggi che subivo che spesso svenivo dal dolore: usavano lo scudiscio e bastoni muniti di chiodi. Conservo ancora la foto della camicia che indossavo, tutta macchiata di sangue. Venni interrogato per circa dodici volte dal 2 al 17 maggio, con bestialità, brutalmente, ma da me non ebbero mai la confessione. 
Tentarono di farmi contraddire mettendomi a confronto con altri prigionieri che conoscevo e che mi conoscevano, senza riuscire a piegarmi ai loro voleri, nonostante il mio corpo fosse ormai ridotto ad una piaga, nonostante non potessi più dormire per il dolore. Le mie condizioni erano tali che due dei medici del III Braccio di nascosto mi passavano delle pillole calmanti che lenivano un po' il dolore, dandomi così la felicità di qualche ora di sonno. In carcere conobbi un piazzese di nome Saverio Arcurio con cui organizzai un comitato che si incaricò di redigere un piano per l'evasione dei detenuti. Avevamo diversi problemi tra cui quello che riguardava l'evacuazione di diverse donne, per lo più mogli di alti ufficiali italiani datisi alla macchia; non potendo arrestare i mariti avevano pensato di detenere le mogli. Venne però il tempo del processo che si svolse il 31 maggio 1944: nell'arco di un pallido pomeriggio uno squallido tribunale germanico dopo un interrogatorio farsa mi condannò alla pena capitale mediante fucilazione. Ritornai in carcere con l'animo di chi doveva essere ucciso da lì a qualche giorno. Dentro di me venivano in mente tanti pensieri, i miei affetti più cari, la mia terra di Sicilia, Piazza
Non mi perdetti d'animo, anche perché sentivamo le confortanti notizie sull'arrivo imminente degli alleati. Ma un giorno ascoltammo dei passi sinistri lungo i corridoi di Regina Coeli. Era il plotone di esecuzione che veniva a prelevare i condannati a morte. Diverse esecuzioni furono messe in essere, io però mi salvai grazie alla fortuna e ad uno stragemma che mi consentì di sopravvivere e di raccontare la mia vicenda. Di lì a poco i tedeschi si ritirarono e i nostri custodi diventarono gli austriaci, oltre ai collaborazionisti italiani. Prendemmo coraggio ed un giorno decidemmo la sommossa. 
La mattina del 4 giugno '44 ci tenemmo tutti pronti per un'azione di forza contro i nostri sicari; il comandante Saverio Arcurio riuscì a "convincere" la guardia armata che tutti eravamo disposti a vendere cara la nostra pelle, alle ore 12 ci ritrovammo nuovamente fuori, ma con un'aria diversa, non c'erano più tedeschi. I'indomani cercai di riprendere contatto con i miei uomini, però non fu possibile; a Belsito trovai altri carabinieri e patrioti coi quali accerchiammo e costringemmo alla resa due militi fascisti, cercai di bloccare il vicebrigadiere della PAI Gragnani che però riuscì a sfuggirmi e a dare l'allarme alla vicina caserma della PAI dalla quale vennero fuori 18 uomini che alla fine pensarono bene di darsela a gambe abbandonando nelle nostre mani la caserma dove trovammo anche l'elenco della squadra del fascista Gragnani.
Io non potei partecipare all'arrivo degli americani a Roma in quanto fui inviato in convalescenza a causa delle ferite riportate durante gli i pestaggi cui venivo sottoposto in carcere. Quando ritornai a Roma, a guerra già finita e col grado di Maresciallo, fui inviato a comandare la Stazione di S. Pietro; sono stato io ad intervenire e a sedare la prima rivolta di detenuti comuni del dopoguerra nel carcere di Regina Coeli in Roma.

martedì 14 aprile 2015

Bloccato l’elettrodotto per collegare la Sicilia al continente.

Pure i NO-pilone...non si rendono neanche conto che vanno contro gli interessi degli stessi siciliani e di tutti gli italiani.
Parlo di interessi ambientali, oltre che economici:
  • minor utilizzo di energia rinnovabile (sia in export che in import);
  • maggiori emissioni di CO2 dovute ad impianti obsoleti che in mancanza del cavo devono necessariamente continuare a funzionare, ma che chiuderebbero subito con l'attivazione del collegamento;
  • utilizzo di linee vecchie che andrebbero dismesse;
  • maggiori costi dell'energia (anche al di fuori della Sicilia): solo per la Sicilia hanno dovuto fissare un tetto massimo al prezzo; 
  • e come ciliegina sulla torta, tanti bei soldi per chi l'energia elettrica, in Sicilia, la vende.

Ma queste cose di sicuro gli attivisti dei NO-pilone le avranno considerate molto bene.
Buona lettura.


Articolo pubblicato il giorno 2 aprile 2015 sul sito web Contro l’Italia dei NO

Ci mancava il comitato anti-pilone nel variegato esercito dei No a tutto. Tranquilli, l’abbiamo trovato, e grazie alla sua denuncia  presentata nel 2013 alla procura di Messina, si è ottenuto il sequestro del sostegno N.40 del tratto siciliano  dell’elettrodotto Sorgente-Rizziconi. Opera elettrica tra le più importanti per il paese che deve congiungere l’isola con la rete sul continente, assicurando così la sicurezza del fabbisogno elettrico della Sicilia, rimuovendo le strozzature di rete e calmierando il consueto esorbitante prezzo dell’elettricità  siciliana. Impennate che avvantaggiano gli operatori elettrici isolani ma costano a famiglie e imprese della Trinacria; solo nella scorsa estate, 600 milioni di euro, per un totale, a tutto il 2014, di oltre 4 miliardi di euro di mancati risparmi. Insomma, un’opera necessaria non solo per le tasche degli utenti siciliani, ma anche indispensabile per l’ammodernamento di un’infrastruttura di trasmissione che deve diventare sempre più interconnessa e integrata con le fonti rinnovabili per realizzare l’agognata transizione verso una generazione low carbon che sta a cuore di tutti. O no?

Cinque anni di iter autorizzativo, oltre 100 incontri e sopralluoghi con le comunità locali, e i pareri positivi di oltre 80 enti interessati non sono stati sufficienti per rassicurare l’opinione pubblica locale che la difesa del territorio e la tutela della salute pubblica erano state ampiamente esaminate e valutate. Invece, improvvisamente, a lavori quasi ultimati, a pochi mesi dell’entrata a regime dell’elettrodotto, grazie all’attivismo dell’associazione Mediterranea per la Natura Onlus (MAN), è stato riconosciuto come vigente, sebbene sia ancora ancora in corso di approvazione, il piano paesaggistico dell’ambito regionale 9 della provincia di Messina nel quale rientra il comune di Saponara in cui si trova il crinale di Monte Raunuso dove è posizionato il pilone incriminato.

Alla beffa per gli utenti italiani che in bolletta si ritroveranno comunque i 700 milioni di euro di investimento spesi da Terna per realizzare un’opera inutilizzata, si aggiunge il paradosso di un’amministrazione che rilascia pareri che si rimangia, di una burocrazia che avanza per ritrarsi. E’ perlomeno stravagante che,  l’organo preposto alla valutazione, cioè la Soprintendenza ai Beni Culturali e Ambientali di Messina, nel corretto esercizio della propria discrezionalità tecnico-amministrativa, abbia revocato il parere positivo già espresso sull’opera senza preoccuparsi del significato di andare contro, e non adempiere, all’interesse pubblico; così com’è sconcertante che l’autorizzazione sia stata rilasciata dalle medesime istituzioni che hanno poi approvato il piano paesaggistico che vincola l’opera.

Perdita secca invece, dal punto di vista ambientale. Il territorio  non potrà beneficiare del piano di dismissioni connesse alla realizzazione dell’elettrodotto Sorgente-Rizziconi. Con la sua messa in esercizio, ora con il blitz giudiziario procrastinato sine die, sarebbero state rimosse ben 87 km di vecchie linee, poste in vicinanza di 1.151 edifici, 636 dei quali nell’area a elevato rischio di crisi ambientale della Valle del Mela.


lunedì 13 aprile 2015

Piazza Armerina, spari contro un furgone: autista illeso

Riporto un articolo tratto dal Giornale di Sicilia, risalente a ieri (12 aprile). Mi stupisco come ancora una volta gli organi di stampa piazzesi non abbiano (ancora) dato alcuna notizia a riguardo...ho aspettato tutta la mattina prima di scrivere questo post.
Ovviamente è una notizia su cui andrebbe fatta luce e chiarezza, e spero che il ritardo dei media piazzesi sia dovuto a questo impegno nel chiarire un pò meglio la vicenda. 
Rimane però il fatto che a 24h di distanza ancora non si sia letto nulla a riguardo.
Teniamo sempre alta la guardia su eventi che potrebbero essere legati alla mafia.

Ad ogni modo, ecco l'articolo, a firma di Roberto Palermo.

Il dipendente di una impresa edile era alla guida del mezzo che è stato raggiunto da diversi colpi di arma da fuoco. L’«avvertimento» è avvenuto ieri mattina.

PIAZZA ARMERINA. Colpi di arma da fuoco ieri mattina sulla fiancata di un furgone guidato dall’impiegato tuttofare di un’impresa della città dei mosaici. Misteriosa «intimidazione» quella che avrebbe coinvolto un dipendente di un’impresa edile mentre stava iniziando la sua giornata di lavoro come tante altre mattine. Gli uomini del commissariato armerino che conducono le indagini insieme ai colleghi della Squadra Mobile di Enna mantengono sull’episodio uno strettissimo riserbo. L’uomo sarebbe uscito a bordo del furgone dalla sede dell’impresa quando sarebbero partiti alcuni spari, si presume da un fucile, che avrebbero raggiunto il veicolo sul lato sinistro.
I colpi di fucile sarebbero stati sparati forse da un boschetto vicino, con l’autore dell’agguato che si sarebbe riparato tra alcuni cespugli, facendo poi perdere le proprie tracce nei secondi successivi agli spari. Per fortuna l’uomo al volante del furgone è uscito incolume dalle fucilate, non riportando alcun graffio, ma certo rimanendo fortemente impaurito non appena si è resoconto di quanto era successo. Si seguono nelle prime fasi dell’inchiesta tutte le piste possibili.

sabato 4 aprile 2015

La lettera di Samir

Mi trovo per alcuni giorni in Sicilia, la mia terra, luogo di arrivo e di partenze, anche per me. 
Forse per questo mi sono imbattutto praticamente subito in una lettera di un ragazzo egiziano di circa 20 anni, Samir. E' una lettera alla sua amata, che in quel momento si trovava ancora in Egitto.
Samir però non ce l'ha fatta: è arrivato cadavere a Pozzallo.

Mio adorato amore,
per favore non morire, io ce l'ho quasi fatta.
Dopo mesi e giorni di viaggio sono arrivato in Libia.
Domani mi imbarco per l'Italia. Che Allah mi protegga.
Quello che ho fatto, l'ho fatto per sopravvivere.
Se mi salverò, ti prometto che farò tutto quello che mi è possibile per trovare un lavoro e farti venire in Europa da me. Se leggerai questa lettera, io sarò salvo e noi avremo un futuro. Ti amo, tuo per sempre.

Samir

venerdì 27 marzo 2015

La situazione idrica a Piazza Armerina

L'acqua è un tema che interessa tutti, in particolare il sottoscritto, che ha pure passato qualche anno di vita a studiarla.
Riguardo al sistema idrico, si possono individuare due ordini di criticità: a monte dell'utilizzo, ovvero estrazione e distribuzione, e a valle, cioè il trattamento e lo scarico finale nel corpo idrico ricettore.
Su queste (ed altre tematiche) è stato da poco messo online il "Portale dell'acqua" , che fornisce tutta una serie di dati ed informazioni sulla situazione della gestione idrica nel nostro paese.
Il portale è stato realizzato dalla "Struttura di missione contro il dissesto Idrogeologico e per lo sviluppo delle infrastrutture idriche", istituita dalla Presidenza del Consiglio.

Appena ho saputo del portale, ho pensato immediatamente al mio bel paese di Piazza Armerina. 
Di seguito riassumo i dati e le informazioni che trovato, cercando di essere il meno retorico possibile, visto che sul tema dell'acqua se ne dicono veramente di tutti i colori. Mi perdonerete se ogni tanto inserirò dei commenti.

Sappiate innanzitutto che l'Italia è attualmente sottoposta ad una procedura di infrazione europea a causa dell'inadempienza di molti comuni italiani alla direttiva 91/271/CEE, riguardante il trattamento delle acque reflue urbane. 
Non posso che segnalare che in questo caso "l'odiata" Unione Europea fa una cosa importantissima, spingendo il nostro paese ad applicare le giuste azioni che proteggano l'uomo e l'ambiente.
Mi sembrerebbe molto contraddittorio se qualunque antieuropeista utilizzasse queste procedure di infrazione per chiedere degli interventi a favore dell'ambiente: sarebbe come dire "dovete proteggere l'ambiente, come dicono gli incompetenti e inutili rappresentanti della UE."

Ma lasciamo stare la politica, e torniamo a noi.
Ogni buon ingegnere ambientale sa che tutti i comuni al di sopra di 2000 abitanti dovrebbero essere dotati di un impianto di depurazione, ma nella realtà questo  in molti casi non avviene. 
Oltre all'inesistenza dell'impianto, l'inadempienza alla direttiva può derivare anche dal fatto che l'impianto, anche se esistente, non soddisfa determinati requisiti o perché non sono state comunicate determinate informazioni.

Anche Piazza Armerina (insieme a circa altri 1000 comuni) ha l'onore di essere citata nella lettera del commissario europeo per l'ambiente Janez Potocnik, riguardante la suddetta procedura di infrazione.
L'impianto di Piazza Armerina risulta inadempiente per due motivi:
  • non è stato data una giustificazione al fatto che sia stato ridotto il numero di abitanti che l'impianto deve servire (da 26.149 a 23.000);
  • non è presente un trattamento secondario e pertanto i risultati dei trattamenti non sono conformi alla direttiva.
Riguardo al secondo punto, dando uno sguardo alle foto satellitari si vede che il trattamento secondario in effetti è presente, ma probabilmente non funziona come dovrebbe (oppure è il primario che viene bypassato).
Per ovviare a queste inadempienze, risultano programmati degli interventi di cui però, purtroppo, non si hanno dettagli (le informazioni sugli interventi dovrebbero provenire dagli ATO di appartenenza).

Passiamo ora ad alcuni dati interessanti, provenienti dai rapporti ISTAT al 2012.

Piazza Armerina ha una percentuale di perdite idriche del 53,5%, al di sopra della media ATO del 48,2% e della media regionale del 45,6%.

















Per avere un quadro del contesto italiano delle perdite idriche, riporto la mappa seguente.


Passando ai dati sui trattamenti delle acque reflue, si scopre che nell'ATO di Enna viene trattato il 37,5% dei reflui civili prodotti, rispetto ad una media regionale del 40,4%, che è il valore più basso tra le regioni italiane.In questo caso non si hanno dati sui singoli comuni.
Piazza Armerina è dotata di un impianto che dovrebbe essere in grado di trattare all'incirca tutti i reflui civili prodotti, quindi tutte le abitazioni ed attività normalmente collegate alla rete fognaria urbana  recapitano i reflui all'impianto di trattamento. Inoltre in queste percentuali difficilmente rientrano i sistemi esistenti di trattamento individuale dei reflui (vasche IMHOFF, ecc.)
Per concludere, due considerazioni:
  1. Scopo di questo articolo non è fare terrorismo psicologico, ma soltanto riassumere dei dati esistenti online e liberamente consultabili. I dati risalgono al 2012, quindi le cose potrebbero essere cambiate, per esempio in seguito a successivi interventi sulle reti di distribuzione.
  2. Risparmiamo tutta l'acqua che possiamo, in ogni momento e in ogni atto della nostra quotidianità.



martedì 24 marzo 2015

Rapporto GSE su energia da fonti rinnovabili in Italia

Il GSE ha pubblicato il primo rapporto statistico “Energia da fonti rinnovabili in Italia – 2013, dedicato al complesso degli usi energetici delle FER.

Dal rapporto emerge che, in Italia nel 2013, il 16,7% dei consumi complessivi di energia sono stati coperti da fonti rinnovabili. Dato che porta l’Italia a un passo dal raggiungimento del target Ue del 17% al 2020 e vicino a quello del 19-20% fissato dalla SEN.

Nel settore elettrico sono stati prodotti nel 2013, 112 TWh da fonti rinnovabili. La fonte idraulica è quella che ha contribuito maggiormente (47%), seguita da quella solare (19%), dalle bioenergie (15%) e dalla fonte eolica (13%).

Nel settore termico, nel 2013 sono stati consumati 10,6 Mtep di energia da fonti rinnovabili (18% dei consumi complessivi di energia termica), di cui 9,8 Mtep in modo diretto (stufe, camini, pannelli solari, pompe di calore, impianti di sfruttamento del calore geotermico) e 0,8 Mtep come consumi di calore derivato. Le bioenergie hanno fornito il contributo più rilevante (7,8 Mtep) grazie soprattutto al notevole consumo di biomassa solida nel settore domestico. Molto significativo è anche il contributo delle pompe di calore (2,5 Mtep), mentre è ancora limitato il contributo della risorsa geotermica e di quella solare.

E infine per quanto riguarda il settore trasporti sono stati immessi in consumo 1,25 Mtep di biocarburanti sostenibili (oltre 1,4 milioni di tonnellate), in gran parte costituiti da biodiesel (94%). Rispetto all'obiettivo settoriale fissato dalla UE per il 2020 (10%), l'Italia si attesta poco al di sotto del 5%.

venerdì 13 marzo 2015

Il gas (non) conteso tra Italia e Croazia

Ieri in uno dei tanti talk show in TV si parlava (anche) di energia, che è un po' il mio settore. 

Era presente Di Battista (M5S): non si è fatto mancare qualche fesseria , sempre con il suo eloquio teatrale, appassionato ma soprattutto superbo e saccente. Ha detto: "dovremmo investire in rinnovabili, come fanno negli altri paesi". Spero sappia che per incentivare gli investimenti in rinnovabili tutti paghiamo già in bolletta più di 12 mld euro annui. Vabbè.

Durante la trasmissione viene citato un articolo di Romano Prodi che fa notare il paradosso dei nuovi grandi giacimenti gas in Adriatico (giacimenti in alto mare, lontano dalle coste): dal lato Croazia hanno già fatto campagne esplorative e assegnato le licenze per la produzione, invece da noi è tutto bloccato. I giacimenti sono a cavallo del confine tra acque territoriali croate e italiane, quindi estraendo dal loro lato, i croati tireranno su anche il metano giacente sotto acque italiane. L'utilizzo di quelle risorse farebbe risparmiare all'Italia un bel po' di soldi.
Ok, dice Prodi, massima attenzione ambientale e principio di precauzione da considerare sempre, ma il modo giusto di affrontare il rischio NON è bloccare tutto, quanto piuttosto analizzarlo e gestirlo, e per questo in Italia abbiamo una normativa tra le più restrittive al mondo (oltre ad un avanzato know-how tecnologico e accademico). 
A chiunque a questo punto stia pensando:" si, ma qua siamo in Italia, si sa come vanno le cose, mancano i controlli e alla fine inquinano tutto", io rispondo con le parole dette su un altro argomento dallo stesso Di Battista: "se il problema sono i controlli, allora sono quelli da sistemare, non possiamo bloccare delle cose positive per paura che alcuni possano fare azioni illecite".

La risposta di Di Battista in questo caso invece è stata: "Prodi è quello che ci ha fatto entrare nell'euro, quindi non si può pretendere granchè.": complimentoni, analisi molto seria e approfondita dell'argomento trattato nell'articolo.

Torniamo alla Croazia: il Ministero dell'ambiente italiano ha giustamente ottenuto di partecipare alla procedura di Valutazione Ambientale Strategica per i progetti croati, visto che anche l'Italia sarebbe coinvolta in eventuali impatti negativi. Per coerenza dall'Italia (e dalle regioni) dovrebbe allora arrivare un'opposizione pari a quella fatta internamente. Vedremo.
Va detto che in effetti anche in Croazia ci sono opposizioni contro le attività estrattive, quindi il governo ha deciso di fare un referendum popolare in proposito. Vedremo.

Io ritengo che l'attenzione su questi progetti sia importante, e può aiutare a tenere alta la guardia, però non mi spiego come sia possibile che appena si pensa a qualche opera di un certo tipo, partono istantaneamente i comitati di opposizione. Allo stesso modo è sbagliato essere a priori a favore di qualsiasi opera, ed io non voglio essere tra questi ultimi.
Da modestissima persona "informata" sulla materia dico: la tematiche ambientali ed energetiche sono varie e complesse, nel senso che non esiste la soluzione unica e perfetta in ogni situazione ("investiamo in rinnovabili, e tutto sarà risolto"). Ad esempio il gas è ritenuta la miglior fonte energetica di transizione verso un'economia decarbonizzata, verso la quale per fortuna ci stiamo dirigendo (che i petrolieri lo vogliano o no).

Per concludere, sul tema io la penso come Prodi, cioè come nell'articolo che trovate qui.


lunedì 2 marzo 2015

PD contro distacco idrico (ed M5S??).

Vorrei segnalare che oggi il PD ha presentato in commissione ambiente al Senato un emendamento al collegato ambientale per garantire una fornitura idrica minima vitale ed evitare il distacco completo anche in caso di morosità prolungata
Ripeto, è una proposta del PD, presentata da Stefano Vaccari (emendamento 44.0.100). 

Lo dico perchè il M5S (anche quello di Piazza Armerina) aveva fatto giustamente tanto rumore in proposito (vedere comunicato del 27 novembre 2014), dicendo che avrebbero lavorato in Senato per fare proprio quello che invece stanno facendo oggi i ladri-mafiosi-kasta del PD. 

Se l'emendamento sarà accettato (si spera anche con i voti di quelli dell'M5S) non vorrei vedere annunci targati M5S del tipo "Ce l'abbiamo fatta, a dispetto della kasta" (ancora peggio se scritto tutto maiuscolo e con aggiunto "fate girare, tutti devono sapere").


martedì 17 febbraio 2015

La guerra in Libia è un regalo al califfo - Lucio Caracciolo (LIMES)

Interessantissima analisi di Lucio Caracciolo (LIMES) della situazione in Libia e degli scenari di intervento.

Buona lettura.

Una campagna militare di crociati e apostati: al-Baghdadi non potrebbe chiedere di più. Senza assecondare l'avventurismo di chi dimentica il nostro passato coloniale, l'Italia può fare qualcosa contro i jihadisti della Quarta sponda.

Il “califfo” al-Baghdadi non potrebbe sperare di meglio: l’invasione armata di ciò che resta della Libia, condotta da ”crociati” (italiani, francesi e altri europei) e “apostati corrotti” (egiziani più arabi e africani vari). 

Eppure del nuovo sbarco sulla quarta sponda si discetta nelle cancellerie europee e nei palazzi dei monarchi e delle giunte militari arabe, con il discreto ma pressante incoraggiamento americano. Una operazione di controguerriglia da sviluppare su un territorio largamente desertico grande sei volte l’Italia, in totale caos geopolitico, dove si affrontano decine di bande e milizie di vario colore e appartenenza etnica, locale o regionale, tutte armate fino ai denti.

Una campagna che in teoria si presenta non dissimile dalle guerre sovietica o americana in Afghanistan, solo in un contesto molto più confuso e senza i mezzi delle superpotenze. Ma con la stessa carenza di obiettivi chiari e perseguibili. 

Perché, contrariamente a quanto affermano i suoi portavoce, lo Stato Islamico non sta conquistando la Libia. Semmai, alcune fazioni che continuano a massacrarsi senza pace usano il marchio “califfale” in franchising, per ottenere visibilità e attirare reclute. 

In ogni caso, per una spedizione oltremare toccherebbe esibire una bandiera Onu autorizzata dal Consiglio di Sicurezza - percorso non scontato - in modo da vestirla da “operazione di pace”. Come ha avvertito il ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, l’Italia «è pronta a combattere, naturalmente nel quadro della legalità internazionale». 

Stavolta però la foglia di fico onusiana non potrebbe mascherare la natura della guerra: non c’è nessuna pace da preservare, nemmeno in embrione. Non basta: il ministro della Difesa Roberta Pinotti ha annunciato che Roma aspira a guidare l’agognata missione schierando un contingente di cinquemila uomini. In effetti, più che di soldati avremmo bisogno di carri armati (Rommel docet), che non abbiamo: quelli davvero efficienti si contano sulle dita delle mani o poco più. 

Peggio, sembra che alcuni esponenti del governo abbiano persa la memoria del nostro passato coloniale in Tripolitania e in Cirenaica. Certo non l’hanno dimenticato i libici. «Tutto ciò cui aspiriamo è avere di nuovo gli italiani qui fra le mani», ha twittato uno dei più seguiti blogger di Misurata, nemmeno fra i più radicali. Per vendicare Omar al-Mukhtar e i suoi gloriosi martiri. 

Quattro anni dopo aver partecipato controvoglia, su uno strapuntino dell’ultimo minuto, alla liquidazione franco-britannica di Gheddafi (e della Libia), adesso rischiamo dunque di tornarci in pompa magna, per ritessere la tela che abbiamo strappato. A supportare le ambizioni egiziane sulla Cirenaica e gli interessi francesi nel Fezzan. 

Invece del Colonnello, con cui flirtammo per quattro decenni, lavoreremmo stavolta per un sedicente generale dalle ambigue credenziali, Khalifa Heftar, appoggiato da egiziani, sauditi, emiratini e altri petromonarchi del Golfo. Il quale ha saputo abilmente intestarsi la “guerra al terrorismo” (sezione libica), certificato di qualità ad uso dei governi e delle opinioni pubbliche occidentali meno avvertite, utile a legittimare l’eliminazione dei propri avversari - in questo caso anzitutto le milizie di Misurata e altri gruppi presuntamente “islamisti”. 

Puro avventurismo geopolitico, che fra l’altro significherebbe esporci gratuitamente al terrorismo jihadista sul nostro territorio molto più di quanto non lo si sia adesso. A rimettere ordine nel dibattito pubblico alimentato dai suoi stessi ministri ha pensato Matteo Renzi, avvertendo che «non è tempo per una soluzione militare». Il nostro premier ha preso tempo: meglio “aspettare l’Onu”. E ha correttamente osservato: «In Libia non c’è un’invasione dello Stato Islamico, ma alcune milizie che combattevano lì hanno iniziato a fare riferimento a loro». 

Renzi mostra così di non voler cadere nella trappola della propaganda del “califfo”, che si annuncia “a sud di Roma”. E, se volessimo davvero combattere lo Stato Islamico, potremmo attaccarlo dove effettivamente si trova, fra Siria e Iraq. Non risulta però che i nostri piloti siano autorizzati a colpirlo. 

Ma qualcosa si può e si deve fare. Prima di tutto, non accendere nuovi focolai di guerra senza speranza di vincerla. Poi, usare le leve finanziarie di cui ancora disponiamo per bloccare i flussi di denaro che arrivano ai gruppi armati - operazione tutt’altro che impossibile. In terzo luogo, colpire i traffici che alimentano i miliziani, compresi i jihadisti che fanno riferimento allo Stato Islamico. Tra Iraq e Siria gli americani hanno bombardato con qualche successo raffinerie e impianti controllati dal “califfato”. 

In Libia le Marine occidentali potrebbero affondare, prima che partano, le barche con cui i mercanti di essere umani attraversano il Canale di Sicilia, lucrando su migliaia di disperati. 

Un blocco navale di fatto, accompagnato da operazioni di forze speciali nei porti libici, infliggerebbe un colpo severo al più osceno dei traffici. E alla cassa degli aspiranti emuli del “califfo”.

giovedì 5 febbraio 2015

Lettera aperta a un amico musulmano - Confronto sull’islam e sulla barbarie dell’Isis

La presente lettera è stata scritta da Francesca Paci, giornalista della Stampa che da anni lavora in Medio Oriente.

Aggiungo questa lettera agli Appunti perchè anche io, in questi mesi, mi sono confrontato con i miei amici musulmani: ad alcuni di loro ho tentato di dire le stesse parole, una ad una, che ha scritto Francesca Paci (alla quale ho già fatto i complimenti su twitter).

Buona lettura.


Caro Mohammed, 

amico con cui da anni discuto dei rapporti tra islam e occidente, dei pregiudizi, dei ponti da costruire al posto dei muri, delle nostre colpe e della vostra ipersensibilità, voglio scriverti oggi perché ho ancora l’amaro in bocca per la nostra telefonata di ieri, mentre la Rete moltiplicava le immagini del pilota giordano Muad Kassasbe bruciato vivo dagli assassini dello Stato Islamico (e poi vendicato dalla Giordania con un’ennesima esecuzione che come denuncia anche Amnesty non risolve il problema). Lo so, preferisci che non chiami Stato Islamico la banda criminale di al Baghdadi, preferisci l’acronimo arabo di “daesh”, quello adottato ufficialmente dalla Francia per evitare qualsiasi associazione tra la tua religione e la barbarie all’opera in Siria e in Iraq. Hai ragione, le parole contano, anche in Gran Bretagna ormai si dice quasi sempre “daesh” perché giustamente l’aggettivo “islamico” è neutro e non ha alcuna connotazione violenta. Al netto della necessaria correttezza lessicale però, mi duole che il tuo disgusto per l’ennesima feroce esecuzione firmata “daesh” non arrivi fino in fondo, come non è arrivato fino in fondo dopo l’attentato al settimanale francese Charlie Hebdo, come non è arrivato fino in fondo dopo la decapitazione del giornalista americano James Foley e degli altri ammazzati dai boia incappucciati, come non arriva più fino in fondo quando ripensi a posteriori agli aerei che si schiantano sulle Torri Gemelle nel cielo sopra New York. 

Avevi 17 anni l’11 settembre del 2001, ci siamo conosciuti poco dopo. Mi hai raccontato che restasti scioccato, che non avevi alcuna simpatia politica per gli americani anche se ascoltavi Moby, che detestavi il sostegno di Washington a Israele e al regime dell’allora Faraone Mubarak (per questo hai partecipato alla rivoluzione di piazza Tahrir), che senza alcuna profonda empatia restasti ugualmente ammutolito. Anche 14 anni fa, nell’enfasi del momento, hai pensato che tutte le possibili malefatte degli Stati Uniti non meritassero quella carneficina, l’hai pensato mentre già tra i tuoi amici, sui giornali egiziani, nei programmi tv iniziavano a serpeggiare insidiosi il virus del giustificazionismo e la tentazione di credere al complotto. Alla fine, sotto sotto, sebbene tu sia troppo per bene per credere che la Cia o la Casa Bianca o il Mossad abbiamo davvero pilotato Mohammed Atta, hai cominciato a congetturare, tu quoque, che mah, forse qualcosa di strano dietro alle Twin Towers c’era pure... L’hai cominciato a pensare perché sei cresciuto, ti sei laureato in ingegneria informatica e hai preso a viaggiare in un mondo che ti guardava diversamente perché ti chiamavi Mohammed e hai sviluppato una ipersensibilità verso qualsiasi discorso sull’islam. Io questo lo capisco, so quanto siano stati pesanti questi ultimi anni per chi come te prega senza farlo pesare a nessuno e mi accompagna a cercare una birra nella Cairo in pieno Ramadan. 

Eppure quando commenti con me gli orrori compiuti nel nome della tua religione senti sempre il bisogno, e lo senti sempre più spesso, di spiegarmi che l’islam non c’entra, che il Corano è un libro di pace, che le parole del Profeta Maometto sono parole di amore, che la moderazione è la cifra delle tue preghiere e che gli assassini sono falsi musulmani la cui opera profanatrice fa comodo dietro le quinte a chissà chi. Anche ieri l’hai fatto, mentre la gabbia dentro cui ardeva il povero 24enne catturato a dicembre (musulmano anche lui) ci sbatteva in faccia tutto il peggio dell’odio giustificato da presunte missioni indicate da Dio. Ma a chi vuoi che faccia comodo, Mohammed? La Storia dell’uomo è costellata di orrori su cui si sono disfatte e costruite civiltà, se dovessimo leggerla sempre nell’ottica di chi-si-è-avvantaggiato-di-cosa non ci sarebbe Storia. Siccome il presidente Francese Francoise Hollande ha visto la sua popolarità lievitare dopo Charlie Hebdo, dobbiamo sospettare che abbia architettato lui l’attentato? Siccome ogni stupro di gruppo commesso in India accende l’interesse mediatico su una tragedia altrimenti ignorata, dobbiamo sospettare che le donne abbiano interesse a essere violentate? Siccome più bambini muoiono a Gaza e più cresce il biasimo internazionale verso il blocco imposto da Israele, dobbiamo sospettare che ad ammazzarli siano i palestinesi?  

Quando la mia religione, il cristianesimo, passava a fil di spada gli infedeli dietro le insegne delle Crociate chi se ne avvantaggiava? Chi armava le mani dei conquistadores muniti di croce e spada in America Latina? Quale falsa lettura dei libri sacri giustificava l’azione della Chiesa nell’Irlanda delle Case Magdalene, i famigerati istituti di suore che accoglievano le ragazze ritenute “immorali”? La Chiesa, tardi e male quanto vuoi, si è presa carico del suo passato e della sua storia. E quando non l’ha fatto la Chiesa l’hanno fatto i cristiani. E quando anche i cristiani riluttavano l’hanno fatto gli atei, i volteriani, gli irriverenti. Quando riuscirai a dirmi senza omissioni che i tagliagole di al Baghdadi pregano come te, si rivolgono verso la Mecca come te, che osservano lo stesso digiuno rituale e che sono un cancro nato all’interno della tua famiglia senza che neppure chi davvero se ne avvantaggia (come per esempio il criminale Bashar Assad) abbia avuto influenza sulla genesi di quella follia? 

In realtà chi ha alimentato questa follia chiamata “daesh” esiste ma, perdonami Mohammed, non si trova a Washington né a Gerusalemme. Per quanto la criminale guerra di Iraq voluta da George W. Bush abbia scoperchiato il vaso di Pandora, per quanto la morte dei bambini di Gaza squassi il cuore, per quanto le cerimonie di nozze afghane devastate dai droni killer siano deprecabili, le menti di quelli che bruciano oggi il pilota giordano (ma anche Charlie Hebdo) sono piene delle idiozie diffuse negli ultimi trent’anni da una pubblicistica religiosa che propaga una visione basica dell’islam, elementare, ignorante, fatta solo di haram/halal (vietato/permesso).  

Hai ragione, è una versione dell’islam da analfabeti, due dei foreign fighters partiti da Birmingham per andare a combattere in Siria aveva prima comprato su Amazon il manuale “Islam for dummies”. Hai ragione, lo so, l’islam è molto altro e il Corano come la Sunna sono testi ricchissimi. Ma è inutile girarci intorno, si tratta comunque di una pubblicistica islamica, edita nel Golfo, pile e pile di libri che si basano sulla più rigida delle 4 scuole islamiche (quella hanbalita) e sulla dottrina ultraortodossa wahabita, sono testi zeppi di parole che conosci bene e che riconosci perché sono la distorsione di quelle stesse che leggi tu. Perché i sanguinari vendicatori di Parigi volevano far tacere chi irrideva il tuo Profeta e per quanto quelle vignette fossero insultanti o perfino volgari i loro autori sono stati ammazzati da chi invocava il nome del tuo Dio. E solo quando, amico Mohammed, ti metterai a piangere di fronte alla sagoma di Muad Kassasbe che si squaglia nel fuoco senza pensare a chi c’è veramente dietro, senza spiegarmi che quelli di “daesh” non sono musulmani perché l’islam proibisce l’odio (ma loro, me l’hanno spiegato ad Anversa, pensano di essere musulmani più bravi di te), solo quando la tua condanna della barbarie andrà fino in fondo guardando dentro lo specchio i tuoi fantasmi (oggi anche miei) saremo insieme nella battaglia per la nostra sopravvivenza. E vinceremo.


martedì 3 febbraio 2015

Novità in arrivo riguardo all'assoggettabilità alla VIA per progetti di competenza regionale


Schema di decreto ministeriale recante le linee guida per la verifica di assoggettabilità a valutazione di impatto ambientale dei progetti di competenza delle Regioni e delle Province autonome


L’8 gennaio 2015, il Ministero dell’ambiente ha trasmesso al Senato lo schema di DM riguardante le Linee guida per verifica di assoggettabilità alla VIA per i progetti di competenza delle Regioni e delle Province (allegato IV alla parte seconda del decreto legislativo n. 152 del 2006).
Le Linee Guida sono finalizzate al superamento delle procedure di infrazione della Commissione Europea 2009/2086 e 2013/2170, avviate per non conformità delle disposizioni nazionali alla direttiva VIA 2011/92/UE.

Lo schema è stato assegnato alla 13° Commissione territorio, ambiente e beni ambientali, che dovrà dare un parere entro il 3 febbraio 2015.
Le Linee Guida verranno applicate anche ai procedimenti in corso alla data di entrata in vigore del DM.

In sintesi, le Linee Guida prevedono che le attuali soglie di assoggettabilità riportate all’Allegato IV Parte Seconda del dlgs 152/06 siano ridotte del 50% nei casi in cui i progetti soddisfino uno o più ulteriori criteri che servono ad integrano quelli tecnico-dimensionali e di localizzazione geografica inizialmente utilizzati per la fissazione delle suddette soglie.
La riduzione delle soglie nei casi previsti dagli ulteriori criteri, consente di adattare l’assoggettabilità al fine di considerare la sussistenza e l’effettiva incidenza di condizioni che non erano considerate dal meccanismo di fissazione delle soglie esistenti.
I criteri da considerare al fine di ridurre del 50% le soglie di assoggettabilità sono:
 1. Caratteristiche dei progetti:
§  Cumulo con altri progetti;
§  Rischio di incidenti, per quanto riguarda, in particolare, le sostanze o le tecnologie utilizzate.

        2.  Localizzazione dei progetti
Deve essere considerata la sensibilità ambientale delle aree geografiche che possono risentire dell’impatto dei progetti, tenendo conto, in particolare:

§  Della capacità di carico dell’ambiente naturale, con particolare attenzione alle seguenti zone:
a.              Zone umide;
b.              Zone costiere;
c.               Zone montuose e forestali;
d.              Riserve e parchi naturali;
e.               Zone classificate o protette ai sensi della normativa nazionale; zone protette speciali designate in base alle direttive 2009/147/CE e 92/43/CEE;
f.                Zone nelle quali gli standard di qualità ambientale fissati dalla legislazione comunitaria sono già stati superati;
g.               Zone a forte densità demografica;
h.              Zone di importanza storica, culturale, archeologica.

Le Linee Guida definiscono e descrivono in maniera dettagliata ognuno dei suddetti criteri, e anche le procedure amministrative che Regioni e province dovranno seguire per recepire le modifiche.

Le presenti Linee Guida arrivano, tra l’altro, in un momento di forti cambiamenti dal punto di vista delle competenze autorizzative su tematiche ambientali-energetiche: la riforma del Titolo V parte II della Costituzione prevede infatti il ritorno allo Stato di larga parte delle competenze nei settori ambiente ed energia che sono attualmente materia concorrente con le Regioni.

Di seguito il link al sito del Senato dal quale scaricare lo schema di decreto:

http://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/BGT/845606.pdf


mercoledì 21 gennaio 2015

Centrali a biomasse: informazioni utili.

Da modestissimo addetto ai lavori, mi permetto di scrivere alcune informazioni utili da sapere quando si parla di energia da biomasse.

In primis: l'energia da biomassa è rinnovabile, riconosciuta e supportata in quanto tale in tutto il mondo.

A livello nazionale, negli ultimi 20 anni si è avuto un incremento del 20% della superficie boschiva. Inoltre si individua un tasso di crescita annua dello 0,6%, prevalentemente al centro e al sud (fonte: inventario nazionale delle foreste e dei serbatoi nazionali di carbonio - Corpo forestale dello Stato). In molti chiedono una gestione migliore, che passi anche per la valorizzazione energetica.
Inoltre per quanto riguarda la gestione della risorsa, normalmente si procede ad una pianificazione di taglio e ricoltivazione a rotazione.

Passiamo alle emissioni: innanzitutto ricordiamo che le biomasse sono a bilancio ZERO di CO2, ovvero non contribuiscono all'incremento della concentrazione di CO2: quando vengono bruciate, infatti, le biomasse emettono solo la CO2 che hanno assorbito da vive. Per questo l'energia da biomassa contribuisce al raggiungimento degli obiettivi del 20-20-20 scaturiti dal protocollo di Kyoto. 
Quindi le centrali a biomasse aiutano nella lotta ai cambiamenti climatici.

Per quanto riguarda le diossine, in generale richiedono la presenza di cloro organico, cioè legato a composti del carbonio (per esempio il PVC, che è una plastica) e anche di metalli di transizione come catalizzatori (Fe o Cu). Inoltre la combustione deve avvenire in difetto di ossigeno. 
Queste condizioni non si verificano molto facilmente nelle centrali a biomasse che bruciano legna (già diverso il discorso per i rifiuti organici). Ciononostante, in effetti si potrebbero avere produzioni di diossine. Ma un impianto industriale è dotato di sistemi per prevenire la formazione (ossigenazione adeguata ad alta temperatura), e per l'abbattimento (post combustione dei fumi). Invece i normali caminetti di casa non sono dotati di questi sistemi.
Le emissioni principali di una centrale a biomasse sono il PM10, PM2,5 e gli ossidi di azoto (NOx). Anche queste emissioni possono (anzi DEVONO) essere ridotte drasticamente con sistemi come denitrificatori, filtri elettrostatici, filtri a manica, centrifughe ecc. Nuovamente ripeto: non credo che nei nostri romantici caminetti a legna abbiamo un sistema SCR di Riduzione Selettiva Catalitica degli ossidi di azoto. Le centrali invece sì.

Ovviamente quanto ho detto vale nel caso di progettazione e gestione corretta dell'impianto (da parte del produttore) e controlli corretti e costanti (da parte del controllore).
Inoltre le concessioni vanno rilasciate in maniera adeguata e con possibilità di rescissione in caso di gestione errata.

Amo i miei boschi e la mia terra e ben vengano i controlli e l'attenzione di tutti, anzi ringrazio tutti quelli che hanno a cuore la nostra Sicilia e si impegnano per difenderla.

Però stiamo anche attenti ad informarci bene.