Articolo di Davide Colombo tratto dal Sole24Ore di oggi.
Lo propongo per aiutare a dare qualche info più solida (a chi è interessato ad averne, piuttosto che farsi bastare qualche slogan) su una tematica intorno alla quale se ne sentono dire di tutti i colori.
Buona lettura.
Perché sarebbe un disastro uscire dall`area euro? L'uscita dalla moneta unica determinerebbe non solo un immediato disallineamento degli spread e una conseguente insostenibilità del nostro debito pubblico, ma scatenerebbe anche un'inflazione a doppia cifra con un'esplosione dei costi energetici. In questo contesto la svalutazione non riuscirebbe a rilanciare le esportazioni e il Pil, visto che le filiere globali della produzione hanno già ridotto i vantaggi competitivi dei singoli paesi.
La risposta alle polemiche populiste sulla moneta unica.
Evidentemente dodici anni di circolazione di una moneta buona non sono ancora bastati per scacciare la moneta cattiva della polemica populista. Tant'è vero che ogni giorno dai bastioni anti-euro arriva una bordata contro la valuta che è diventata unica il 28 febbraio del 2002 per u paesi europei per poi, negli anni successivi, entrare nei portafogli di altri sette. Colpi bassi, sostenuti anche da economisti isolati, fautori della tesi della "liberazione" dell'economia dalle catene di una moneta giudicata troppo forte per i paesi della periferia mediterranea e, quindi, per l'Italia. Le reazioni solite a questa vulgata, quelle che propongono i fatti più duri e che sono sostenute non solo dalla maggioranza assoluta di economisti ma pure dai banchieri centrali, partono dagli effetti di breve termine e ovviamente insostenibili dell'eventuale break-up: l'immediato disallineamento degli spread, il default almeno parziale del nostro debito pubblico (che rifinanziamo sui mercati, in euro, al ritmo di circa i miliardo al giorno), il congelamento dei crediti alle aziende più indebitate e internazionalizzate, l'esplosione dei costi energetici e, infine, il ritorno di un'inflazione a doppia cifra.
Uno scenario drammatico al quale i sostenitori dell'uscita dall'euro contrappongono, come giustificazione della loro tesi, il vecchio arnese della svalutazione del tasso di cambio, magico strumento capace, a loro dire, di rilanciare l'export e la crescita del Pil.
Qualche mese fa a mettere in fila almeno quattro fattori che hanno definitivamente affossato l'equazione "uscita dall'euro = svalutazione = rilancio di export e Pil" è stato il centro studi di Confindustria. Rileggiamoli insieme.
Primo: la diffusione delle filiere globali riducono i vantaggi competitivi di una svalutazione. Non si vive più in un mondo in cui le imprese delle economie avanzate producono interamente in casa i loro beni e servizi importando solo materie prime. Ora si produce importando anche i semi-lavorati che servono a produrre i beni finali da esportare (in Italia, Spagna e Portogallo l'import di commodity e beni semi-lavorati è pari al 60% del totale). In questo nuovo contesto di "supply-chain globale" la svalutazione del cambio renderebbe queste importazioni assai più costose annullando l'eventuale guadagno di competitività.
Secondo: i sistemi bancari in crisi renderebbero difficile ottenere nuovo credito. In pieno credit crunch diventerebbe un'impresa impossibile per le aziende dei paesi più indebitati chiedere finanziamenti per sostenere l'aumento di produzione e soddisfare gli ordini derivanti dalla svalutazione.
Terzo: la più lenta risposta dell'export in un contesto concorrenziale nel quale i paesi più avanzati possono giocare sulla qualità dei loro beni e servizi piuttosto che sul prezzo. La spiegazione è semplice: serve tempo (e nuovi investimenti) per sostituire i semi-lavorati importati con produzioni proprie e mentre questa "sostituzione" si determina la concorrenza degli altri paesi avanza con la qualità (a parità di prezzo) dei loro prodotti.
Quarto: se tutti svalutano nessuno ci guadagna. Il caso citato è quello dell'Argentina del 2002 che ebbe successo abbandonando la parità fissa con il dollaro perché i paesi vicini che importavano i suoi beni (Brasile e Messico) lasciarono immutati i tassi di cambio. Nel caso dei paesi deboli dell'eurozona la svalutazione sarebbe contemporanea e a guadagnarci di più sarebbero quelli con le maggiori quote di export destinate all'area euro, quindi l'Italia vedrebbe diluiti di molto gli eventuali vantaggi.
C'è un ultimo argomento proposto dagli analisti del Centro studi di Confindustria: per esportare di più (dopo aver svalutato) occorre poter contare su un'ampia base industriale capace di produrre beni commerciabili internazionalmente. E purtroppo quella base (che l'Italia ha) è stata fortemente indebolita dalla doppia recessione che ci ha colpito negli ultimi sei anni.
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