Dopo Gideon Levy, oggi è la volta di Amira Haas, giornalista israeliana che vive a Ramallah, in Cisgiordania, e scrive per il quotidiano Ha'aretz.
L'articolo è tratto da Internazionale, dove lei ha una rubrica.
Buona lettura.
Se la vittoria si misura con il numero dei morti, allora Israele e il suo esercito hanno stravinto. Dal momento in cui scrivo queste parole (il 26 luglio) al momento in cui voi le leggerete i morti saranno più mille (di cui il 79-80 per cento civili).
Di quanto aumenterà il conto? Dieci morti? Diciotto morti? Altre tre donne incinte? Altri cinque bambini, con gli occhi socchiusi, la bocca spalancata e i denti da latte sporgenti, con le magliette che grondano sangue mentre i corpi vengono portati via, ammassati su una barella? Se vincere significa costringere l’avversario a caricare i bambini massacrati su un’unica barella (perché le barelle non bastano) allora il capo di stato maggiore Benny Gaz e il ministro della difesa Moshe Ya’alon hanno vinto, e insieme a loro hanno vinto tutti quelli che li ammirano.
Un premio spetta anche alla startup nation, per aver riportato il minor numero possibile di notizie nonostante tutti mezzi d’informazione internazionali disponibili. “Buongiorno, è stata una notte tranquilla”, annunciava allegramente la radio dell’esercito il 24 luglio. Il giorno prima le forze di difesa israeliane avevano ucciso 80 palestinesi, di cui 64 civili, inclusi 15 bambini e cinque donne. Almeno trenta persone erano state ammazzate durante la stessa “notte tranquilla” di cui parlava l’esercito. Sono morti a causa delle schegge, delle bombe e delle pallottole israeliane (per non parlare del numero di feriti e di case distrutte).
Se la vittoria si misura con il numero di famiglie spazzate via nel giro di due settimane (con tutte le combinazioni possibili tra genitori, figli, nonni, nuore, generi, nipoti, cognati) allora Israele ha vinto nettamente. Ecco alcuni cognomi: Al Najjar, Karaw’a, Abu-Jam’e, Ghannem, Qannan, Hamad, Al Salim, Al Astal, Al Hallaq, Sheikh Khalil, Al Kilani. In queste famiglie i pochi sopravvissuti ai bombardamenti delle ultime due settimane si ritrovano a provare invidia per i morti.
E non possiamo dimenticare una corona d’alloro per i nostri esperti legali, senza i quali l’Idf non muove un dito. Grazie a loro far saltare in aria una casa (vuota o piena) è un atto facilmente giustificabile. Basta sostenere che uno dei componenti della famiglia è un bersaglio legittimo (un esponente di Hamas, un soldato, un politico di qualsiasi tipo, un membro della famiglia o soltanto un ospite). “Se tutto questo è legale secondo il diritto internazionale”, mi ha confessato un diplomatico sbalordito per il sostegno accordato dal suo paese a Israele, “allora significa che c’è qualcosa di sbagliato nel diritto internazionale”.
Un altro bouquet di fiori va ai nostri consulenti, laureati delle più esclusive facoltà di diritto di Israele e degli Stati Uniti (e forse anche del Regno Unito). Sono loro a consigliare all’Idf di sparare sulle squadre di soccorso per impedirgli di aiutare i feriti. Nelle ultime due settimane sono stati uccisi sette componenti delle squadre di soccorso, due soltanto il 25 luglio. Altri 16 sono stati feriti, e il conto non include i casi in cui gli attacchi dell’Idf hanno impedito ai soccorritori di arrivare in macchina sul luogo di un disastro.
Qualcuno di voi ripeterà la litania dell’esercito, secondo cui “i terroristi si nascondono nelle ambulanze”. Certo, perché i palestinesi non vogliono salvare i feriti, non vogliono evitare che muoiano dissanguati in mezzo alle macerie. È questo che pensate, vero? Siete davvero convinti che i nostri infallibili servizi d’intelligence (che da anni ignoravano l’esistenza della rete di tunnel sotterranei) potessero sapere in tempo reale che in ogni ambulanza colpita o bloccata dall’Idf si nascondevano palestinesi armati? Perché è lecito far saltare in aria un intero quartiere per salvare un soldato israeliano ferito ma non si può fare nulla per salvare un anziano palestinese intrappolato tra le macerie? Perché è proibito salvare un uomo armato, o più precisamente un combattente palestinese, che è stato ferito mentre cercava di respingere un esercito invasore?
Se la vittoria si misura con la capacità di provocare un trauma devastante (e non per la prima volta) a 1,8 milioni di persone che aspettano solo la morte, allora la vittoria è vostra.
Questi trionfi alimentano la nostra implosione morale, la sconfitta etica di una società che non intende guardarsi allo specchio, che si lamenta per il ritardo di un volo e nel frattempo si considera composta da uomini illuminati. Una società che piange i suoi 40 soldati morti ma allo stesso tempo è insensibile alla sofferenza e al coraggio del popolo che sta attaccando. Una società che non capisce fino a che punto le forze in campo sono squilibrate.
“Nella sofferenza e nella morte”, mi ha scritto un amico da Gaza, “ci sono grandi manifestazioni di tenerezza e bontà. Le persone si aiutano a vicenda, si consolano. I bambini cercano di aiutare i genitori come meglio possono. Ho visto molti bambini non più grandi di 10 anni abbracciare i fratelli più piccoli per cercare di distrarli dall’orrore. Così giovani, ma già responsabili per qualcun altro. Non ho incontrato un solo bambino che non abbia perso qualcuno. Un genitore, un nonno, una zia, un amico o un vicino. Se Hamas è emerso dalla generazione della prima intifada, quando i giovani che lanciavano pietre ricevevano in cambio pallottole, cosa nascerà dalla generazione che negli ultimi sette anni è stata brutalmente e sistematicamente massacrata?”.
La nostra sconfitta morale ci perseguiterà per molti anni.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
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