Il 12 dicembre si è conclusa a
Parigi la 21° Conferenza delle Parti (COP21) sui cambiamenti climatici. Dopo giorni
di trattative, è stato finalizzato un documento condiviso da tutti i 195 Paesi
presenti a Parigi. L’accordo è stato presentato come un passo storico per tutta
l’umanità, un passo decisivo per il futuro del nostro pianeta.
Dal mio modesto punto di vista, l’accordo
presenta luci e ombre, un po’ come affermato, in maniera estrema, da George
Monbiot sul Guardian: “By comparison to
what it could have been, it’s a miracle, by comparison to what it should have
been, it’s a disaster”.
In generale, comunque, mi
sento tra coloro i quali vedono il bicchiere mezzo pieno. Vediamo più in
dettaglio alcuni aspetti, positivi e negativi (sempre dal mio modesto punto di
vista).
Partiamo dagli aspetti positivi:
per la prima volta, praticamente tutti i Paesi della Terra (anche quelli in via
di sviluppo), hanno condiviso l’obiettivo di limitare l’innalzamento della
temperatura media globale al 2100 “ben al di sotto” di 2°C, impegnandosi per non
andare oltre 1,5°C. In effetti, già il solo fatto che tale obiettivo sia stato
condiviso da tutti, è un buon segnale che fa ben sperare. Tale obiettivo è
stato portato avanti in particolare da una High
ambition coalition, costituita dai paesi più minacciati dagli effetti dei
cambiamenti climatici, dall’Unione Europea e, finalmente, anche dagli USA.
Un altro aspetto positivo è che
dal 2020 i Paesi firmatari dovranno obbligatoriamente aggiornare i propri
impegni nazionali di riduzione ogni 5 anni, e le modifiche potranno essere
fatte solo al rialzo, cioè migliorando il livello di ambizione. A partire già dal
2018 e poi ogni 5 anni, inoltre, i Paesi dovranno riferire riguardo ai
progressi fatti per raggiungere i propri obiettivi.
Passiamo ora agli aspetti che, a
mio parere, non sono “completamente positivi”: nel documento non si cita mai in
maniera diretta il concetto di carbon pricing,
inteso come carbon tax, ma si parla però
della possibilità per i Paesi di collaborare con meccanismi di mercato (e non).
Questo è un riferimento a meccanismi simili al sistema ETS implementato in
Europa per lo scambio di permessi di emissione, con modello cap and trade. Tale sistema non ha
funzionato granchè, poiché per varie ragioni il prezzo della CO2 è a
livelli bassissimi (circa 7 €/ton) non dando così un segnale di prezzo
efficace per investire in tecnologie e processi a basso contenuto di carbonio.
Inoltre, col sistema europeo ETS, in effetti, si è alimentato un processo di
delocalizzazione delle attività industriali senza dare alcuno stimolo ai paesi
emergenti ed in via di sviluppo nel processo di decarbonizzazione delle loro
economie. E’ ormai chiaro che è indispensabile fissare un sistema di “carbon pricing” coerente con le regole
del WTO che faccia pesare in modo uniforme a livello globale il contenuto di
emissioni gas serra dei prodotti che circolano nei mercati internazionali. In
un mondo con economie globalizzate, per un determinato Paese, l’unico modo per
intercettare correttamente la CO2 relativa alla produzione/consumo
del bene è quella di tassare il consumo del bene, visto che, come si è visto,
la produzione può tranquillamente avvenire al di fuori del Paese stesso,
eludendo quindi la tassazione sulla produzione. Ma in un periodo di stagnazione
dei consumi come quello odierno (per noi europei), la tassazione sui consumi
suona forse più come un’eresia che una vera proposta politica.
Tutto il testo dell’accordo è
informato dal concetto di differenziazione degli impegni, ovvero il fatto che i
Paesi in via di sviluppo possono impiegare tempi maggiori per raggiungere il
picco di emissioni e hanno obblighi minori riguardo al reporting dei progressi
conseguiti. Questo aspetto, seppur corretto in una certa misura poiché tali
Paesi hanno il diritto di procedere nel loro sviluppo, potrebbe rivelarsi uno
dei più grossi ostacoli al raggiungimento degli obiettivi di contenimento del
riscaldamento: tra i Paesi in via di sviluppo ci sono infatti alcuni tra i
maggiori emettitori di CO2 al mondo, come Cina e India.
Passiamo infine agli aspetti
negativi: salta subito all’occhio che nell’accordo non ci sono percorsi e obiettivi
quantitativi definiti di riduzione delle emissioni di CO2, ma si
parla di raggiungere il picco delle emissioni “al più presto possibile”
considerando la differenziazione per paesi, e raggiungere un equilibrio tra
emissioni e assorbimento/rimozione di CO2 nella seconda metà del
secolo (cioè tra il 2051 e il 2099), cioè la c.d. “Carbon neutrality”.
Inoltre ogni Paese può fissare i propri
obiettivi di riduzione liberamente e senza una struttura standard che li renda
facilmente confrontabili tra Paesi diversi. L’accounting delle riduzioni conseguite potrà essere fatto con
metodologia a scelta del Paese poichè la metodologia di calcolo elaborata dalla
Convenzione è facoltativa.
Infine, non sono previsti
meccanismi “sanzionatori” per chi non raggiunge gli obiettivi prefissati. Quindi
l’impegno di ogni singolo Paese sarà meramente volontario e non vincolante.
Rispetto a Copenaghen nel 2009,
stavolta l’invio degli impegni da parte dei Paesi prima dell’inizio della
Conferenza, l’assenza di meccanismi sanzionatori ed il principio di
differenziazione sono stati elementi chiave per raggiungere un accordo.
In conclusione (considerando che questo
appuntamento di Parigi era “too big to
fail”) l’accordo è un buon punto di partenza che si spera sarà seguito da
azioni coerenti, trasparenti, verificabili e che ognuno faccia veramente la
propria parte.
Sull’obiettivo dei 2°/1,5°, si
potrebbe aprire un’altra discussione, anche alla luce di un recente articolo
apparso su Nature, di cui, per concludere, condivido la frase finale: “we need to agree how to start, not where to
end mitigation”.
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