Di sicuro ha generato un nuovo dinamismo in un mercato che, prezzo del greggio OPEC-dipendente e qualche altro parametro a parte, era diventato un po' noiosetto.
Gli spunti non mancano, dalle stra-sentite previsioni di indipendenza energetica degli USA entro il 2030 o giù di lì, passando per la conversione degli stessi USA da importatore ad esportatore netto (IEA docet), fino agli stravolgimenti negli assetti geopolitici del globo (vedi New York Times) e i possibili impatti ambientali (vedi The Guardian o New York Times).
Da poco ho letto un interessante contributo di Guido Plotino del Sole24Ore (lo trovate qui), dove si prova ad immaginare cosa succederebbe (o succederà) se anche la Cina si butterà sul famoso e super-promettente (!) shale-gas.
Non dimentichiamo, per completare il quadro, il coro di chi mette in allerta l'Europa a non perdere il "treno energetico" del nuovo millennio.
In effetti, nonostante il sensazionalismo generale, non tutti sono così convinti, e qualcuno prospetta l'ipotesi di una "bolla" dello shale-gas, sia per motivi tecnici che finanziari.
Per quanto riguarda i motivi tecnici, Andy Hall, ovvero un trader dotato di un "certo" intuito (ha fatto soldi scommettendo che negli anni 2000 il prezzo del barile sarebbe andato dai 20 fino ai 100 dollari), fa notare che ogni perforazione dà accesso solo a una piccola sacca di gas e petrolio, anziché a vaste riserve. Per questo, nonostante i pozzi siano inizialmente prolifici, la produzione declina rapidamente: per mantenerla a un livello costante bisogna trivellare di continuo nuovi pozzi, cosa impossibile da fare senza prezzi del barile sufficientemente alti.
Il guru del trading sembra condividere l'analisi fatta dal report del Post Carbon Insitute: i maggiori 5 pozzi di shale gas USA attualmente in produzione hanno tassi di declino della produttività dall'80 al 95% sui primi 36 mesi e in generale dal 30 al 50% della produzione di gas da scisti deve essere rimpiazzata ogni anno con nuovi pozzi: per mantenere il livello si dovrebbero trivellare 7.200 nuovi pozzi l'anno. Servirebbe cioè un investimento di 42 miliardi di dollari l'anno: una cifra nettamente superiore ai ricavi dalle vendite, che sono di 33 miliardi l'anno.
Sull'argomento si è pronunciato anche il FMI, con un documento di fine 2012 del Fondo Monetario Internazionale che collegava domanda e offerta di petrolio (con dentro la "bolla", così chiamata dal FMI, dello shale oil) al rischio di una nuova fase recessiva molto acuta.
Per quanto riguarda il lato finanziario, gli analisti del PCI in un altro report azzardano una motivazione del perché ci sia ancora chi dipinge lo shale come un buon investimento, nonostante i dati di cui sopra.
Nel 2011, si spiega, le operazioni di fusione e acquisizione legate agli idrocarburi da scisti a Wall Street hanno raggiunto il volume di 46,5 miliardi di dollari e sono diventate il più grande centro di profitto per diverse banche d'investimento. Questo è avvenuto nonostante i pozzi in questo periodo non abbiano mantenuto le promesse in termini di resa: gli operatori hanno sovrastimato le riserve di shale gas e shale oil dal 100 al 500% rispetto alla produzione effettivamente registrata.
Nel 2011, si spiega, le operazioni di fusione e acquisizione legate agli idrocarburi da scisti a Wall Street hanno raggiunto il volume di 46,5 miliardi di dollari e sono diventate il più grande centro di profitto per diverse banche d'investimento. Questo è avvenuto nonostante i pozzi in questo periodo non abbiano mantenuto le promesse in termini di resa: gli operatori hanno sovrastimato le riserve di shale gas e shale oil dal 100 al 500% rispetto alla produzione effettivamente registrata.
Per portare la produzione ai livelli attesi si è spinto a trivellare ancora di più, arrivando a un eccesso di offerta, che ha spinto i prezzi tanto in basso da essere quasi insostenibili: come detto, per mantenere la produzione servirebbero più investimenti di quanto si ricava dalla vendita. I prezzi bassi hanno aperto la porta ad altre fusioni e acquisizioni, che hanno fruttato miliardi alle banche d'investimento. Molti pozzi sono stati venduti a grandi dell'energia ma si sono anche messi in circolazione strumenti finanziari complessi come i VPP (volumetric production payments) spesso piazzati, assieme ad altri asset su riserve non provate, a investitori che - a differenza di Andy Hall - hanno scarsa dimestichezza con le complesse dinamiche della produzione da fossili, come i fondi pensione.
Una dinamica che ricorda in maniera preoccupante quella che ha innescato la crisi: la corsa nel 2007 a scaricare ad altri i famigerati subprimes sui mutui. Titoli che altro non erano se non promesse che non potevano essere mantenute, proprio come, secondo i dati esposti sopra, potrebbero non essere mantenute le promesse su shale-gas e shale-oil.
Nessun commento:
Posta un commento