Dopo tanto tempo, ritorno a pubblicare qualcosa su questo blog. Da un po' ne sentivo il richiamo e oggi ho finalmente trovato il tempo e (spero) la storia giusta.
Si tratta del 109° "compleanno" della stazione Grand Central di New York City.
Chiunque sia andato a New York ci sarà passato almeno una volta, e anche chi non ha mai visitato la città, l'avrà quasi sicuramente vista in uno dei tanti film - anche animazioni, per esempio Madagascar - ambientate in questa suggestiva stazione ferroviaria.
Di seguito vi riporto l'interessante racconto pubblicato in proposito da Mario Calabresi nella sua newsletter Altre/Storie (alla quale vi consiglio di dare un'occhiata cliccando qui)
Buona lettura (e spero a presto!)
Buon compleanno Grand Central
di Mario Calabresi
Da 109 anni (il compleanno è stato proprio due giorni fa) è attraversata da un instancabile flusso di persone: ondate di passeggeri, pendolari, turisti, che si ripetono sistematiche e costanti da prima dell’alba fino all’ora di cena. Per anni ho coltivato il rito di andare ad osservare questa massa, ad un primo sguardo indistinta, di persone. Affascinato, per usare le parole di una canzone meravigliosa di Franco Battiato (Gli uccelli), dalle “traiettorie impercettibili” e dai “codici di geometrie esistenziali” con cui si muovono. Ognuno alla sua velocità, dettata dagli appuntamenti, dalla fretta, dai ritardi, ma nessuno mai si sfiora o si scontra, proprio come gli uccelli dai “voli imprevedibili e dalle ascese velocissime”.
Da più di due anni, da quando la pandemia ha fermato le nostre ali e non ho più attraversato l’Oceano, il mio rito di osservazione è sospeso e questo luogo del cuore lo visito solo nella memoria.
Sto parlando di Grand Central, una stazione, anzi un Terminal come lo chiamano i newyorkesi, che abita nel cuore di Manhattan, in una casa meravigliosa che mescola stili architettonici completamente diversi e che nell’eleganza del suo marmo era nata per essere “il salotto dei viaggiatori” e la porta d’ingresso dell’America.
Il primo treno che partì 109 anni fa era diretto a Boston e da qui si saliva su convogli che attraversavano tutti gli Stati Uniti. Dopo la Seconda Guerra Mondiale ha cambiato funzione, diventando la casa per eccellenza dei pendolari che ogni giorno vanno a lavorare a New York dalla valle del fiume Hudson, da Long Island o dal Connecticut. Ma il cambio dei nomi sul tabellone, dove non ci sono più Miami, Washington o Chicago ma Yonkers, New Canaan e Poughkeepsie (sede negli Anni Venti e Trenta del secolo scorso dell’unica fabbrica americana della Fiat) non ha minimante scalfito il suo fascino e nemmeno diminuito il numero di coloro che l’attraversano. Resta la stazione con più binari al mondo, sono ben sessantasette disposti su due livelli, e nelle ore di punta arriva un treno ogni 58 secondi.
Grand Central è un posto speciale, che si ribella alle regole stabilite dalla sociologia per stazioni, aeroporti, autogrill, che vengono considerati luoghi di passaggio senza identità dove non si socializza e non si costruiscono relazioni. È stato l’antropologo francese Marc Augè a codificare queste regole in un libro fondamentale pubblicato trent’anni fa e intitolato per l’appunto “Nonluoghi”.
Ma Grand Central non è un nonluogo, se potesse parlare ve lo racconterebbe l’orologio d’ottone a quattro facce che segna l’ora esatta dalla mezzanotte del 2 febbraio 1913: quanti incontri, appuntamenti, baci rubati, scambi di fiori, di regali, litigate, abbracci, pianti sono avvenuti in questo secolo sotto le sue lancette.
Non solo ci passano 750mila viaggiatori al giorno, ma anche più di venti milioni di turisti e curiosi ogni anno.
I nonluoghi sono caratterizzati dalla precarietà e dalla mancanza di storia, perché sempre condannati all’attimo presente, all’istante. Ma a Grand Central la storia invece si forma e si ferma, qui si radunavano i soldati che dovevano partire per il fronte europeo nella Seconda Guerra Mondiale, qui trovarono rifugio i senzatetto durante la feroce crisi che colpì New York negli Anni Settanta, qui è stato aperto uno dei primi centri vaccinali d’America, qui si trova uno dei più caratteristici e tradizionali ristoranti di Manhattan (l’Oyster Bar, dove si può mangiare la New England Clam Chowder, la famosa zuppa di vongole, cipolle e latte che il marinaio Ismaele mangia nel Moby Dick di Melville) e qui si può fare la spesa, comprare un mazzo di fiori, una bottiglia di vino e trovare un regalo.
Ma non solo, secondo Marc Augè nei nonluoghi le persone transitano ma nessuno vi abita, qui invece per alcuni decenni i tunnel sono stati la casa di homeless che vivevano di tutto ciò che la stazione poteva offrire e la loro presenza è sempre stata il sismografo delle crisi, l’indicatore dello stato di salute della città e dell’America tutta.
Sotto questo cielo, è il caso di dirlo perché l’immenso soffitto rappresenta una volta stellata con i segni zodiacali, la vita è reale e prende infinite direzioni.
Proprio in questi giorni del compleanno sono tornato a Grand Central grazie a un libro (Grand Central dream) uscito da pochi mesi, scritto da due giornalisti appassionati di arte cinema e letteratura, Stella Cervasio e Alessandro Vaccaro, che sono stati capaci di raccogliere una straordinaria quantità di storie e informazioni piene di fascino.
Ho scoperto il reparto oggetti smarriti che si trova al binario 100, dove ne vengono raccolti ventimila l’anno e dove è arrivato di tutto: da una gamba di legno a una tartaruga, da un certificato di matrimonio a un gatto. O la storia di Lester Onderdonk, il responsabile del tabellone ferroviario che ogni giorno si posizionava con gessetto e microfono davanti a una lavagna e scriveva a mano con una bellissima grafia gli orari degli arrivi e delle partenze ma anche una serie di note come le previsioni metereologiche avverse a causa delle quali le corse sarebbero state soppresse. All'età di 58 anni la sua carriera terminò in virtù del processo di automazione: Grand Central adottò nel 1967 un display a cristalli liquidi prodotto da un’azienda italiana, la friulana Solari che ha fatto anche i tabelloni dell’aeroporto JFK di New York.
Degli uomini che scrivevano gli orari a mano resta traccia in una bellissima copertina del New Yorker del maggio del 1933, di un tempo in cui donne e uomini portavano il cappello e l’attesa si ingannava leggendo i giornali e non chini con gli occhi sugli smartphone.
Il più illustre e sofisticato settimanale americano ha dedicato tantissime copertine a Grand Central, a partire da quella del 1927 realizzata da Theodore Gilbert Haupt, pittore di matrice surrealista che regalò una visione completa del Main Concourse, l’immenso salone delle partenze, mostrando anche il cielo stellato. Cervasio e Vaccaro raccontano nel loro libro che lo stesso pittore realizzò anche un murale per lo zoo di Central Park che purtroppo fu distrutto dai lavori di restauro.
La copertina più potente è però la più recente: pubblicata il 30 Marzo del 2020, durante il primo lockdown, è il simbolo di ciò che abbiamo vissuto negli ultimi due anni. Si vede il grande atrio della stazione completamente deserto, unica presenza quella di un uomo delle pulizie che sta lavando il pavimento. L'orologio, solitario e quasi sperduto, sembra interrogarsi su ciò che sta succedendo. Mai nella sua storia aveva visto quello spazio vuoto e desolato, mai i treni si erano fermati, mai i negozi, i bar e i ristoranti non avevano aperto all’alba. Non è un caso che per raccontare il momento più drammatico della storia della città dopo l’11 settembre il New Yorker abbia scelto proprio Grand Central.
Ora la vita è tornata, lo smart working ha diminuito la forza delle ondate di pendolari e i turisti sono pochi, mancano gli europei, gli asiatici e i sudamericani, ma ogni giorno si aggiunge qualcuno. L’Oyster Bar ha sfruttato questo tempo per ristrutturarsi e modernizzare i suoi 440 coperti, anche se un negozio su tre nell’area intorno alla stazione non ha più riaperto. Ma chi ha memoria e conosce la storia della città sa che si rialzerà anche questa volta.
Intanto per festeggiare il 109esimo compleanno, questa settimana in ogni bar della stazione una tazza di caffè americano costava solo 1,09 dollari.
Io aspetto fiducioso di tornare a scegliere un angolo delle scale o di una delle balconate, prendere un caffè e mettermi a osservare la folla indistinta e cercare di intuire storie, vite e incontri. E di tornare a salutare l’orologio.
Nessun commento:
Posta un commento