venerdì 21 febbraio 2014

In Ucraina si gioca anche la partita energetica tra Russia e Ue

La situazione in Ucraina mi ha colpito particolarmente, anche perché, occupandomi di energia, l'ho seguita fin dai primissimi giorni. 
Sì, proprio così, perché la tematica energetica è fondamentale per capire le motivazioni e  le implicazioni della situazione attuale, come segnalai già a novembre dello scorso anno, riportando l'analisi dell'Economist.

Qualcuno nei giorni scorso ha tirato fuori il solito urlo "l'Europa li sta lasciando soli!", ma in effetti, a ben guardare, la crisi nasce dal fatto che la UE si apprestasse ad accogliere l'Ucraina all'interno della propria comunità, quindi proprio il contrario di quanto urlato. 
Per non parlare dell'incoerenza di molti anti-europeisti: da una parte vorrebbero uscire dalla UE per avere una maggiore sovranità nazionale, dall'altra però chiedono che la stessa intervenga rapidamente (senza specificare bene come) per risolvere la situazione, esautorando totalmente l'Ucraina (che non fa parte della UE) della propria sovranità nazionale.

In realtà la UE è già pronta per delle prime sanzioni e ha inviato a Kiev un team per discutere e fare pressioni su Yanukovich. Alcuni giornali parlano addirittura di una inaspettata unità e reattività della UE rispetto alla crisi Ucraina (Sole24Ore).

L'articolo seguente, tratto da Limes, presenta lo scenario attuale con un focus sull'ambito energetico, descrivendo anche le azioni della UE nel il confronto con la Russia.
Condivido con Colantoni (l'autore dell'articolo) la convinzione che ci sia la necessità di una coerente politica energetica europea, la quale non può prescindere dall'unità politica, ovviamente.

Buona lettura.

Dietro agli scontri di Kiev corre il confronto fra Mosca e Bruxelles per le forniture di gas all'Unione Europea. In assenza di una politica condivisa a livello continentale, le armi dell'Ue potranno ben poco contro il Cremlino.

In Ucraina, dietro alle manifestazioni di piazza e alle pressioni sul governo Kiev si cela un confronto internazionale: quello tra l’Unione Europea (Ue) e la Russia per le forniture di gas.

Il tallone d'Achille di Bruxelles è infatti la sua dipendenza energetica: oltre la metà del suo fabbisogno è coperto dalle importazioni di idrocarburi. Mentre il ricorso al gas soddisfacerà fino al 25% del consumo energetico dell'Unione sino al 2050, il costo delle importazioni di combustibili fossili dovrebbe salire a circa 500 miliardi di euro già nel 2030. Frattanto, sin dal 2011 la Russia si è affermata come primo esportatore energetico in Europa, battendo la concorrenza di Norvegia, Algeria e altri paesi arabi. Forte della sua posizione dominante, Mosca ha quindi lanciato una serie di politiche tese a puntellarne ulteriormente il primato. L'Unione Europea non è stata a guardare.

La prima e più importante arma di pressione della Russia è data dalla possibilità di assetare l’Europa isolandola dai suoi fornitori energetici. Se l’importanza dell’Ucraina sta anche nei suoi quasi 40 mila chilometri di gasdotti, l’area del Mar Caspio (Turkmenistan, Kazakistan, Azerbaigian e Uzbekistan) dispone di quasi 21 mila chilometri cubi di riserve di gas naturale, a fronte dei 33 mila chilometri cubi di tutto il territorio russo.

Alcuni di questi paesi - è il caso del Kazakistan - indirizzano più del 50% delle proprie esportazioni di gas e petrolio in Europa, rappresentando un eccellente fornitore di idrocarburi per l’intera Ue. Eppure, tali paesi esportano notevolmente meno di quanto potrebbero: la carenza di infrastrutture per le esportazioni li ha infatti resi completamente dipendenti dalla Russia sin dagli anni Novanta. Mosca ha accentuato tale dipendenza sponsorizzando South Stream, infrastruttura energetica alternativa al Nabucco (il gasdotto che avrebbe dovuto collegare i fornitori centro-asiatici all'Europa senza passare per il territorio russo), avente caratteristiche analoghe ma attraversante il territorio della Federazione.

La politica dei contratti a lungo termine è un’altra leva a disposizione del Cremlino. Negli ultimi anni, Gazprom ha difeso strenuamente questo tipo di accordi, arrivando a scatenare un dibattito accademico per provarne la validità. L'accanimento contro la cosiddetta gas-to-gas competition, ossia il mercato libero per il gas, riguarda le caratteristiche di questi contratti: a lungo termine, indicizzati al prezzo di un’altra commodity e quindi non liberi di fluttuare sulla base della domanda del bene, con clausole di destinazione geografica che impediscono l’eventuale vendita del gas acquistato a un terzo paese.

Dieci anni fa le compagnie energetiche europee consideravano questi accordi un modo per assicurarsi un approvvigionamento energetico facile e sicuro nel tempo. Oggi, questi accordi rischiano di bloccare altri potenziali fornitori (Stati Uniti, paesi del Sud America o dell'Asia), lasciando i prezzi europei a livelli che, dal 2012, viaggiano a ritmi più che doppi di quelli americani: una vera manna per Gazprom e il Cremlino.

Non bisogna infine dimenticare le due crisi del gas tra Ucraina e Russia, nel 2006 e nel 2009. Mentre la Russia accusava l'Ucraina di sottrarre il gas destinato all’Europa, numerosi paesi europei furono duramente colpiti in entrambe le occasioni. Grecia e Repubblica Ceca subirono un taglio di oltre il 70% delle proprie forniture, mentre la Slovacchia dichiarava lo stato di emergenza e la Bulgaria fermava la produzione in alcuni dei suoi più importanti impianti industriali. Una buona dimostrazione di forza da parte di Mosca.

L'arma più affilata di cui dispone la Ue è il Terzo pacchetto energetico, che prevede la liberalizzazione del mercato del gas e dell’elettricità e la separazione tra chi produce l’energia e chi la trasporta. Esattamente l’opposto di quello che vorrebbe la Russia, che al centro della sua strategia ha il controllo dei centri di trasmissione, ucraini in primis. Il problema principale è che questo pacchetto è riservato ai soli Stati membri e non è teoricamente applicabile al di fuori dell’Ue: in realtà, il Trattato della comunità dell’energia estende il Terzo pacchetto anche ad alcuni Stati al di fuori dell’Unione, dove la legge europea diventa applicabile.

La Commissione europea ha potuto così attaccare Gazprom proprio nel suo progetto più importante, South Stream, dichiarando che gli accordi stipulati fra la Russia e altri 7 paesi europei violavano la legge dell'Unione. Il commissario all’energia Oettinger ha chiesto inoltre pieno accesso alle infrastrutture energetiche e il controllo sulle tariffe imposte: in poche parole, che South Stream diventi un progetto europeo e non di proprietà di Gazprom. Proprio la ragione che indusse la Russia a uscire dal Trattato della comunità dell’energia nel 2009.

Il caso tra Gazprom e la Commissione europea è quello in cui l'Unione ha la possibilità di colpire la Russia più duramente. Definito come il “caso antitrust del decennio”, potrebbe concludersi con una multa pari al 10% dei 109 miliardi dichiarati da Gazprom nel 2012. Una minaccia temibile per la Russia, che sta già valutando la possibilità di un patteggiamento. Eppure, l’esito della scontro tra Mosca e Bruxelles non è affatto scontato e dipende soprattutto da due fattori: l’evoluzione della posizione russa nei confronti dell’Europa e le politiche dei singoli Stati membri.

Da una parte, il Cremlino difende una posizione dominante estremamente forte: alcuni Stati membri, come la Lituania e l’Estonia, hanno in Mosca il loro unico fornitore di gas. Questa ha oltre 2.7 miliardi di dollari di crediti nei confronti dell’Ucraina, un formidabile strumento di pressione.

Dall'altra parte, l’Ue potrebbe aprire nuove fonti di approvvigionamento energetico nei prossimi anni, così riducendo la dipendenza dalle forniture russe. Anche se l'Europa decidesse di proibire del tutto lo shale gas - quello prodotto tramite il fracking - nei territori dei propri Stati membri, l’incremento della produzione di paesi come gli Stati Uniti o la Cina farebbe comunque levitare l’offerta globale. E grazie allo sviluppo del trasporto di gas liquefatto via nave, l’Ue potrebbe rivolgersi a fornitori asiatici o sudamericani un tempo inaccessibili. Altre infrastrutture, come la Trans Adriatic Pipeline, potrebbero poi arrivare dove il Nabucco ha fallito.

Una politica energetica europea di successo ha però bisogno dell’appoggio dei suoi Stati membri. In questo, l’Ue è molto distante dall’essere unita. Il continente europeo si caratterizza per un panorama energetico estremamente eterogeneo, dove alcuni Stati importano più dell’80% del proprio fabbisogno energetico (è il caso dell'Italia) e altri il 40% (del Regno Unito), vittima della mancanza di volontà nel perseguire una politica energetica comune.

Così, accade che tra i partner del gasdotto russo South Stream, il peggior rivale dell’europeo Nabucco, figurino l'italiana Eni e il gigante francese Edf. Allo stesso modo, nel corso della crisi del gas del 2009, solo l’intervento di Angela Merkel aveva permesso alla Commissione europea di vedersi assegnata la missione di monitoraggio per risolvere la disputa. La cancelliere aveva però difeso strenuamente il controverso gasdotto Nord Stream: senza voler contare le implicazioni ambientali, la struttura ignorava 4 Stati membri (Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia), finanziando un’operazione i cui soci, tedeschi e russi, erano guidati dall’ex cancelliere della Germania Gerhard Schröder. Difficile vedere una politica energetica europea in tutto questo.

Una politica energetica solida e coerente si rende però necessaria soprattutto per chi come l’Italia o la Spagna ha i costi per l’elettricità e il gas tra i più alti al mondo, a fronte della competizione industriale di paesi come gli Stati Uniti dove questi sono addirittura in diminuzione.

Il confronto tra Bruxelles e la Russia potrebbe essere infine l’occasione per sviluppare una politica estera europea, dimostrando ancora una volta come l’Unione e la competitività economica non possano prescindere dall'unità politica.

mercoledì 5 febbraio 2014

Perché sarebbe un disastro uscire dall`area euro - Sole24ore

Articolo di Davide Colombo tratto dal Sole24Ore di oggi.
Lo propongo per aiutare a dare qualche info più solida (a chi è interessato ad averne, piuttosto che farsi bastare qualche slogan) su una tematica intorno alla quale se ne sentono dire di tutti i colori.

Buona lettura.

Perché sarebbe un disastro uscire dall`area euro? L'uscita dalla moneta unica determinerebbe non solo un immediato disallineamento degli spread e una conseguente insostenibilità del nostro debito pubblico, ma scatenerebbe anche un'inflazione a doppia cifra con un'esplosione dei costi energetici. In questo contesto la svalutazione non riuscirebbe a rilanciare le esportazioni e il Pil, visto che le filiere globali della produzione hanno già ridotto i vantaggi competitivi dei singoli paesi.

La risposta alle polemiche populiste sulla moneta unica.

Evidentemente dodici anni di circolazione di una moneta buona non sono ancora bastati per scacciare la moneta cattiva della polemica populista. Tant'è vero che ogni giorno dai bastioni anti-euro arriva una bordata contro la valuta che è diventata unica il 28 febbraio del 2002 per u paesi europei per poi, negli anni successivi, entrare nei portafogli di altri sette. Colpi bassi, sostenuti anche da economisti isolati, fautori della tesi della "liberazione" dell'economia dalle catene di una moneta giudicata troppo forte per i paesi della periferia mediterranea e, quindi, per l'Italia. Le reazioni solite a questa vulgata, quelle che propongono i fatti più duri e che sono sostenute non solo dalla maggioranza assoluta di economisti ma pure dai banchieri centrali, partono dagli effetti di breve termine e ovviamente insostenibili dell'eventuale break-up: l'immediato disallineamento degli spread, il default almeno parziale del nostro debito pubblico (che rifinanziamo sui mercati, in euro, al ritmo di circa i miliardo al giorno), il congelamento dei crediti alle aziende più indebitate e internazionalizzate, l'esplosione dei costi energetici e, infine, il ritorno di un'inflazione a doppia cifra.
Uno scenario drammatico al quale i sostenitori dell'uscita dall'euro contrappongono, come giustificazione della loro tesi, il vecchio arnese della svalutazione del tasso di cambio, magico strumento capace, a loro dire, di rilanciare l'export e la crescita del Pil.

Qualche mese fa a mettere in fila almeno quattro fattori che hanno definitivamente affossato l'equazione "uscita dall'euro = svalutazione = rilancio di export e Pil" è stato il centro studi di Confindustria. Rileggiamoli insieme. 

Primo: la diffusione delle filiere globali riducono i vantaggi competitivi di una svalutazione. Non si vive più in un mondo in cui le imprese delle economie avanzate producono interamente in casa i loro beni e servizi importando solo materie prime. Ora si produce importando anche i semi-lavorati che servono a produrre i beni finali da esportare (in Italia, Spagna e Portogallo l'import di commodity e beni semi-lavorati è pari al 60% del totale). In questo nuovo contesto di "supply-chain globale" la svalutazione del cambio renderebbe queste importazioni assai più costose annullando l'eventuale guadagno di competitività.

Secondo: i sistemi bancari in crisi renderebbero difficile ottenere nuovo credito. In pieno credit crunch diventerebbe un'impresa impossibile per le aziende dei paesi più indebitati chiedere finanziamenti per sostenere l'aumento di produzione e soddisfare gli ordini derivanti dalla svalutazione.

Terzo: la più lenta risposta dell'export in un contesto concorrenziale nel quale i paesi più avanzati possono giocare sulla qualità dei loro beni e servizi piuttosto che sul prezzo. La spiegazione è semplice: serve tempo (e nuovi investimenti) per sostituire i semi-lavorati importati con produzioni proprie e mentre questa "sostituzione" si determina la concorrenza degli altri paesi avanza con la qualità (a parità di prezzo) dei loro prodotti. 

Quarto: se tutti svalutano nessuno ci guadagna. Il caso citato è quello dell'Argentina del 2002 che ebbe successo abbandonando la parità fissa con il dollaro perché i paesi vicini che importavano i suoi beni (Brasile e Messico) lasciarono immutati i tassi di cambio. Nel caso dei paesi deboli dell'eurozona la svalutazione sarebbe contemporanea e a guadagnarci di più sarebbero quelli con le maggiori quote di export destinate all'area euro, quindi l'Italia vedrebbe diluiti di molto gli eventuali vantaggi.

C'è un ultimo argomento proposto dagli analisti del Centro studi di Confindustria: per esportare di più (dopo aver svalutato) occorre poter contare su un'ampia base industriale capace di produrre beni commerciabili internazionalmente. E purtroppo quella base (che l'Italia ha) è stata fortemente indebolita dalla doppia recessione che ci ha colpito negli ultimi sei anni.