giovedì 25 luglio 2013

Brevissimo brano da "Sostiene Pereira"

Ho appena finito di leggere "Sostiene Pereira".
Lo so, forse sembra strano ma non lo avevo ancora letto. Ma finalmente l'ho fatto, e mi è piaciuto molto, sia per la tematica che per lo stile in cui è scritto: una sorta di verbale redatto non si sa da chi (ma forse, a pensarci bene, dal Tribunale della Storia).
Riporto qui un brevissimo brano, proprio in base ai motivi originari che mi hanno portato a creare questo blog: annotare, appuntare tutto quello che, tra una lettura e l'altra non voglio dimenticare.
Nel brano, sostituendo l'ultima parola, "portoghesi", con la parola "siciliani", si capisce forse perché questo passaggio mi sia piaciuto così tanto. 

Buona lettura.

[...] spiegò il direttore, può sempre celebrare Camoes, che è il nostro grande poeta nazionale, e fare un riferimento al giorno della Razza, basta un riferimento perché i lettori capiscano. Mi scusi signor direttore, rispose con compunzione Pereira, ma senta, le voglio dire una cosa, noi in origine eravamo lusitani, poi abbiamo avuto i romani e i celti, poi abbiamo avuto gli arabi, che razza possiamo celebrare noi portoghesi?

mercoledì 24 luglio 2013

Economist: la primavera araba è un'onda che non torna indietro

Nelle fasi di cambiamento le fotografie più fedeli sono quelle che vengono mosse.
Questo può riassumere l'idea che scorre tra le righe del rapporto dell'Economist sulle primavere arabe.
Il presente articolo è di F.L., tratto da Staffetta Quotidiana.

Buona lettura.

Regimi dittatoriali collassati e diffusione della democrazia sono solo alcune delle conseguenze della Primavera Araba. Ma quali sono le prospettive per questi Paesi? “Qualcuno dice che la primavera araba si è trasformata in un inverno islamico”. Uno speciale dell'Economist analizza lo stato delle rivoluzioni arabe tra riforme e spinte verso la conservazione: politica, cultura, religione e risorse energetiche.
La primavera è finita. Ma una nuova primavera è sempre in arrivo. Gli sconvolgimenti che hanno ridisegnato in profondità la vita politica e sociale del mondo arabo, scoppiati due anni fa, si sono trasformati in una fase di ambigua tranquillità, agitata da scosse improvvise e allarmanti, come la recente crisi egiziana. Il numero dell'Economist della settimana scorsa dedica il titolo di copertina a una domanda: “La primavera araba ha fallito?”. Domanda che, per come è formulata, sembra suggerire un'implicita risposta: qualcosa è andato storto. Nel lungo articolo che apre l'inserto interamente dedicato ai Paesi arabi sembra effettivamente che la tesi sia quella di una rivoluzione sostanzialmente mancata: “Quei giorni esaltanti e pieni di speranza sono passati. Lo stato d'animo che attraversa il mondo arabo è adesso cupo”, si legge sul settimanale economico. E ancora: “Qualcuno dice con amarezza che la primavera si è trasformata in un inverno islamico”.
Per un primo momento infatti, dittature in campo da decenni sono collassate una alla volta e col montare delle proteste – che hanno incendiato prima Tunisia, Libia, Egitto e Yemen – anche altri governi arabi hanno annunciato riforme politiche e promesso una maggiore spesa pubblica con l'intento di offrire concessioni allo scopo di rasserenare cittadini che venivano contagiati dalle sollevazioni. Il virus della democrazia, che ha infettato le coscienze dei cittadini arabi, ricordava invece agli occidentali le liberazioni degli anni sessanta del Novecento, tanto che “l'eccezione araba – l'apparente incapacità di questi stati neo-patriarcali di muoversi verso norme politiche condivise da gran parte del mondo – è sembrata essere superata”.
Il sospetto che l'Economist non vuole trascurare è che in una seconda fase possa accadere ciò che si è visto in Iran anni fa: che cioè la democrazia possa essere usata come un veicolo per legittimare nuove forme di autoritarismo. L'avanzare delle libertà individuali potrebbe infrangersi contro una forza di segno inverso, capace di riassorbire tutto ciò che si è conquistato. L'approccio con cui si apre questa analisi è dunque attento nel mettere in campo tutte le preoccupazioni e i pericoli nascosti in una instabilità politica duratura, resi evidenti dalla caduta del presidente Morsi da parte dell'esercito egiziano.
Quanto agli analisti invece, come sottolinea l'Economist, questi sono meno preoccupati dalle vere intenzioni degli islamici che non dal caos e dalla prolungata fase di transizione politica che per ora non ha sradicato l'origine da cui sono partite tutte le rivolte: i problemi sociali. Per ora infatti, il diritto al voto e una maggiore libertà di espressione non hanno portato a più posti di lavoro né hanno illuminato le previsioni di un futuro che si mostra ancora incerto e pieno di ombre. Il giudizio di partenza dell'Economist sembra essere dunque negativo: “nessun Paese arabo è emerso come modello da seguire per gli altri”. E ancora: “la disperazione sembra vincere sulla speranza”. Non manca infatti di registrare casi in cui si riscontrano effetti indesiderati della primavera: lì dove soffia un vento di nuova tirannia, come nel caso del Bahrain, per non parlare della situazione in Siria. Qui, ciò che era stato innescato come una protesta contro il regime è virato verso un conflitto che ha portato a oltre 100 mila morti. È proprio la possibilità che le rivolte popolari possano trasformarsi in guerre civili ciò a cui si aggrappano i regimi che provano a proteggere il loro potere. Le stesse monarchie petrolifere, ricorda l'Economist, hanno ristretto le libertà e celato le forme di dissenso sotto una coltre di normalità.
Eppure, all'interno dei vari temi di cui si occupa il report – che si tratti del rapporto tra religione e politica, della condizione dei giovani, della rappresentanza delle donne o degli squilibri delle risorse economiche della regione – nei ragionamenti e nelle analisi scorre la consapevolezza che questo giudizio è una “valutazione prematura”. Se si osservano altre esperienze del passato infatti non si può non notare che le transizioni viaggiano su periodi di tempo più estesi. Non solo mesi. A volte anni. A volte decenni.
Il consiglio dunque che emerge da queste 15 pagine di speciale è di non prendere la situazione attuale come materia per un bilancio definitivo, ma al contrario, di pensare che la Storia si muove per processi lenti e che raramente ciò che appare in superficie è fedele a ciò che circola nelle zone più profonde.
Tra i problemi messi a fuoco negli articoli che ricompongono il mosaico variegato delle società arabe (un Islam che va da posizioni riformiste al fondamentalismo religioso) c'è lo squilibrio nella diffusione delle ricchezze, col possesso degli idrocarburi concentrato in poche mani. L'Arabia Saudita, per esempio, possiede da sola la maggior parte delle riserve di petrolio. Solo otto Paesi dei 19 del mondo arabo si stanno arricchendo grazie all'export di energia. Nel Qatar il 14% delle famiglie è milionaria: “la proporzione più alta di qualsiasi altro Paese al mondo”. E così la media del reddito dei Paesi del Golfo è di circa 50 volte superiore a quella dello Yemen, del Sudan o della Mauritania. I paesi arabi più poveri non diventeranno mai come il Qatar, ma molti, come Yemen, Tunisia e Sudan stanno già esportando greggio o gas e il Marocco spera di poter presto puntare sulle esplorazioni offshore.
Altre preoccupazioni riguardano i giovani: “la disoccupazione giovanile nei Paesi arabi è doppia rispetto alla media globale” con conseguenze che hanno ricadute culturali come i ragazzi che lasciano le case più tardi e l'età del matrimonio che si sposta in avanti.
Che accadrà? Forse “altri disordini quasi certamente nuovi spargimenti di sangue sono in arrivo”. Difficoltà e minacce vengono da più fronti. Le tentazioni del neoliberismo e le spinte sotterranee del radicalismo religioso. Con gli under 30 sempre più alfabetizzati e connessi attraverso le televisioni satellitari e internet (non è un caso che in alcuni Paesi si sia verificata una stretta contro i dissidenti con l'arresto di figure che si sono espresse criticamente nei confronti dei regimi, o introducendo nuove norme sui raduni pubblici). Il tentativo dell'Economist di scattare una fotografia più dettagliata possibile della situazione dunque sfocia in una constatazione. Riassumibile con le parole di Paul Salem, direttore del Carnegie Centre di Beirut: una volta che un'onda è partita questa non torna indietro. L'unico limite di questa analisi dunque è anche il suo maggiore contributo al dibattito: bisogna sempre ricordare che nelle fasi di cambiamento le fotografie più fedeli sono quelle che vengono mosse.

lunedì 22 luglio 2013

Mini-Rapporto sulle energie rinnovabili in provincia di Enna e a Piazza Armerina.

Qualche giorno fa mi chiedevo quale fosse la situazione delle energie rinnovabili in provincia di Enna ed in particolare nel mio paese, Piazza Armerina. Mi sono messo al lavoro ed ecco cosa ho ottenuto con qualche ricerca e alcuni calcoli.

Buona lettura.

Una volta le chiamavano energie “alternative”. Oggi qualcuno inizia a chiedersi chi sia alternativo a chi.
Energia solare fotovoltaica e termica, eolica, biomasse, idroelettrico e altre ancora: meglio chiamarle semplicemente “rinnovabili” (o FER, Fonti Energetiche Rinnovabili).
In Europa l’obiettivo è di arrivare al 2020 con un produzione di energia da FER pari al 20% di tutti i consumi energetici (non solo elettrici, quindi).
Ed una volta tanto l’Italia non è affatto indietro, anzi. Diamo solo un dato come esempio: la potenza fotovoltaica installata in Italia è la seconda al MONDO, abbiamo solo la Germania davanti. Sì, avete letto proprio bene, secondi al mondo: questo significa che alcuni “piccoli” paesi come Cina, USA, Russia e Giappone ne hanno meno di noi. Non mancano in effetti le polemiche su chi ritiene che forse in Italia ci sia stato un incremento fin troppo vertiginoso, guidato da una incentivazione troppo generosa. Ma questa è un’altra storia.
Quanta energia si produce da fonte rinnovabile in Italia?
E’ presto detto, prima va solo fatta una distinzione tra “Consumo Finale Lordo” di energia (CFL) e “Consumo Finale Lordo di Energia elettrica” (CFL E). La differenza è banale: il CFL rappresenta tutti i consumi di energia, sia elettrici che termici (riscaldamento e trasporti); il CFL E rappresenta invece solo i consumi di energia elettrica, dovuti a tutti i tipi di usi (agricoli, industriali e tutto il resto, domestico compreso).
Detto questo, passiamo a rispondere alla nostra domanda: in Italia si produce con fonti rinnovabili l’11,5% di tutta l’energia utilizzata. Passando invece solo all’energia elettrica, ben il 23,5% del consumo totale è coperto da fonti rinnovabili (Dati GSE 2011). Di questo passo raggiungeremo tranquillamente l’obiettivo europeo del 2020.
Riguardo il settore elettrico, il GSE (Gestore dei Servizi Energetici) fornisce dati anche a livello regionale: la quota FER rispetto il consumo elettrico totale della regione Sicilia è del 14,5%. A questo punto mi sono chiesto: ma qual è la situazione nella provincia di Enna  e nel comune di Piazza Armerina? Trovare tutti i dati necessari non è sempre facilissimo, anche perché non esiste una stima dei consumi elettrici a livello comunale. Vanno quindi ottenuti in maniera indiretta, ma utilizzando alcuni semplici algoritmi già utilizzati in altre regioni questo ostacolo può essere superato.
Ecco quindi i risultati di questo mio “Mini-rapporto sulle FER in provincia di Enna e a Piazza Armerina”.
Nella provincia di Enna sono presenti 1541 impianti fotovoltaici, per una potenza totale di 66 MW, ed inoltre è presente una potenza eolica installata di 201 MW. Questi impianti generano una produzione annua di circa 391 GWh, ovvero il 21% di tutta l’energia consumata in provincia.
Per Piazza Armerina sono rintracciabili solo i dati riguardanti la produzione fotovoltaica (tra l’altro non mi risulta la presenza di impianti eolici). Nel comune piazzese sono presenti 199 impianti solari, per una potenza installata complessiva di 7,1 MW, di cui un ben 3,6 MW dovuti ad un solo impianto. Stimando un consumo elettrico annuo dovuto al settore agricolo, industriale, pubblico, dei servizi e domestico pari a circa 48,5 GWh, si ottiene che il 19% di questa energia è prodotta da energia solare. Solo qualche punto percentuale al di sotto della media nazionale.

Per concludere va ricordato che la produzione di energia da fonte rinnovabile non finisce qui: tutta l’energia termica per riscaldamento domestico prodotta con stufe e termocamini a legna, pellet e, più in generale, biomasse, è infatti anch’essa energia rinnovabile.

domenica 21 luglio 2013

Il lavoro di una donna. La realtà distorta di una giornalista freelance in Siria, di Francesca Borri.

Un articolo che mi ha decisamente colpito.
L'originale in inglese è apparso sul  Columbia Journalism Review e lo potete trovare cliccando qui. Questa è la versione comparsa sulla Stampa, tradotta da Bernardo Parrella.
E' un po' lungo, ma ne vale la pena.

Buona lettura.

Finalmente si è fatto vivo. Dopo oltre un anno che lavoravo per lui come freelance, periodo in cui mi sono beccata il tifo e un proiettile nel ginocchio, il mio editor avrà visto le ultime notizie e, pensando che fossi tra i quattro giornalisti italiani brevemente rapiti a inizio aprile, mi ha mandato una mail chiedendo: “Riesci a connetterti? Puoi mandare tweet sulla situazione?”   

La sera stessa sono tornata nella base dei ribelli che mi ospita, nel bel mezzo dell’inferno che è Aleppo, e tra la polvere e la fame e la paura, speravo di trovare un amico, una parola gentile, un abbraccio. Invece mi aspettava soltanto l’ennesima mail da Clara, che sta trascorrendo le vacanze a casa mia in Italia. Mi aveva già mandato otto messaggi con il titolo “Urgente!”. Oggi non riesce a trovare la mia tessera per la sauna, così da andarci gratis. Le altre mail erano del tipo: “Ottimo pezzo oggi; brillante come il tuo libro sull’Iraq”. Peccato che il mio non era un libro sull’Iraq, bensì sul Kosovo.  

La gente coltiva quest’immagine romantica del giornalista freelance che ha barattato la sicurezza dello stipendio fisso per la libertà di seguire quelle storie che l’affascinano di più. Ma noi non siamo affatto liberi; piuttosto, l’esatto contrario. La verità è che l’unico lavoro che oggi mi sia capitato è quello di trovarmi in Siria, dove non vuole andarci nessuno. E non si tratta neppure di Aleppo, per essere precisi; è la linea del fronte. Perché gli editor in Italia non chiedono altro che il sangue, gli scontri a fuoco. Io parlo degli Islamisti e della loro rete di servizi sociali, le radici del loro potere – un articolo decisamente più complesso da costruire di un racconto in prima linea. Mi arrovello per spiegare al meglio, non solo per commuovere, per colpire chi legge, e mi sento rispondere: “Cos’è 'sta roba? Seimila parole e non c’è nessun morto?”  

In realtà avrei dovuto capire come stavano le cose quella volta che il mio editor mi chiese un pezzo su Gaza, perché, come al solito, era lì che piovevano le bombe. Ecco cosa mi ha scritto: “Conosci Gaza a occhi chiusi. Che importa se ora sei ad Aleppo?” Giusto. La verità è che sono finita in Siria dopo aver visto le fotografie di Alessio Romenzi su Time, il quale era riuscito a raggiungere Homs seguendo le condutture dell’acqua, quando nessuno aveva la più pallida idea di dove fosse Homs. Guardavo le sue istantanee al suono dei Radiohead, quegli occhi che mi penetravano, gli occhi delle persone massacrate dall’esercito di Assad, una dopo l’altra, e nessuno aveva mai sentito parlare di un posto chiamato Homs. Una morsa che mi stringeva la coscienza: dovevo andare immediatamente in Siria.   

Ma per gli editor non fa differenza se scrivi da Aleppo o da Gaza o da Roma. Tanto ti pagano la stessa cifra: 70 dollari. Anche in Siria, dove i prezzi triplicano per via della speculazione diffusa. Per esempio, solo dormire in questa base dei ribelli, sotto il fuoco dei mortai, con un materasso sul pavimento e l’acqua infettata da cui mi sono presa il tifo, costa 50 dollari a notte; 250 dollari al giorno per una macchina. Anziché ridurre i rischi si finisce così per massimizzarli. Non soltanto non puoi permetterti alcun tipo di assicurazione – quasi mille dollari al mese – ma neppure un aiutante o un traduttore sul campo. Ti trovi completamente sola nell’ignoto. Gli editor sanno bene che con 70 dollari a pezzo sei costretta a risparmiare su tutto. Sanno pure che se dovesse capitarti di essere ferita gravemente, emerge quella strana speranza di non sopravvivere, perché non puoi permetterti neppure di essere ferita. Però ti comprano lo stesso l’articolo, pur se non si sognerebbero mai di comprare un pallone di calco della Nike fatto a mano da un bambino pakistano.   

Le nuove tecnologie della comunicazione ci inducono a credere che velocità equivalga a informazione. Ma ciò si fonda su una logica auto-distruttiva: i contenuti vengono standardizzati, e il nostro giornale o la nostra rivista non offre più una sua specificità, e non c’è più alcun motivo per avere un reporter stipendiato. Come ben sappiamo, per seguire le notizie basta Internet – e gratis. La crisi odierna riguarda le testate d’informazione, non i lettori. C’è sempre chi ha voglia di leggere, e diversamente da quanto ritengono molti editor, si tratta di lettori intelligenti che chiedono semplicità senza semplificazioni. Vogliono capire cosa succede, non solo conoscere i fatti. Ogni volta che esce un mio pezzo di testimonianza diretta sulla guerra, ricevo decine di mail da gente che dice, “Sì, bel pezzo, ottimo quadro, ma io vorrei capire quello che sta succedendo in Siria”. E mi piacerebbe tanto rispondere loro che non posso proporre un pezzo d’analisi perché gli editor non farebbero altro che cestinarlo e direbbero, “Ma chi credi di essere, ragazzina?” – anche se ho tre lauree, scritto due libri e trascorso 10 anni in vari conflitti bellici, prima come funzionario per i diritti umani e ora come giornalista. Per quel che vale, la mia gioventù è finita quando ho visto schizzarmi addosso pezzi di cervello di gente uccisa in Bosnia, avevo 23 anni.   

I freelance sono giornalisti di seconda classe – anche quando sono tali soltanto qui in Siria, dove si combatte una guerra sporca, una guerra del secolo scorso; ribelli e lealisti si fronteggiano in trincee così vicine che possono urlarsi addosso mentre si sparano contro. La prima volta in prima linea, incredibile ma vero, che vedo le baionette nominate solo sui testi di storia a scuola. Nei conflitti odierni si usano i droni, qui invece si combatte metro per metro, strada per strada, ed è davvero terrificante. Eppure gli editor italiani ti trattano come una ragazzina; una tua foto conquista la prima pagina e ti dicono che hai avuto fortuna a trovarti nel posto giusto al momento giusto. Riesci a fare un servizio esclusivo, come quello che ho curato nel settembre scorso sulla città vecchia di Aleppo in fiamme, uno dei siti dichiarati patrimonio dell’umanità dall’UNESCO, mentre i ribelli e l’esercito siriano se ne contendevano il controllo. Sono stata il primo reporter straniero sul posto e gli editor mi dicono: “Come possiamo giustificare il fatto che il nostro corrispondente non è riuscito ad arrivarci e tu invece sì?”. Ecco cosa ha scritto un editor sul mio pezzo: “Te lo compro, ma lo pubblichiamo con la firma del nostro corrispondente”.  

E poi, ovviamente, c’è il fatto che sono una donna. Di recente, una sera il bombardamento era incessante e io me ne stavo seduta in un angoletto, con l’unica espressione possibile quando sai che la morte può arrivare in un istante, si avvicina un giornalista, mi squadra dall’alto in basso, e fa: “Questo non è un posto per donne”. Cosa puoi mai rispondere a un tipo simile? Idiota, questo non è un posto per nessuno. Se tremo di paura è perché sono sana di mente. Perché ad Aleppo ci sono solo armi e testosterone, e sono tutti traumatizzati: Henri, che parla solo di guerra; Ryan, imbottito di anfetamine. Eppure, ogni volta che vediamo un bambino maciullato, vengono tutti da me, la “fragile” donna, a chiedermi come sto. E mi verrebbe da rispondergli: sto proprio come te. E quelle sere in cui ho l’espressione ferita in realtà sono le sere in cui proteggo me stessa, scacciando via ogni emozione e sentimento; sono le sere in cui riesco a salvarmi. 

Perché la Siria non è più la Siria. È un manicomio. C’è l’italiano disoccupato che decide di far parte di al-Qaeda, mentre la madre lo cerca per tutta Aleppo per dargli una sana bastonata. C’è il turista giapponese che va in prima linea perché dice di aver bisogno di due settimane di “brividi”; il diplomato in legge svedese che è venuto a raccogliere le prove dei crimini di guerra; i musicisti americani con la barba come quella di bin Laden convinti così di poter passare inosservati, pur se sono biondi e alti quasi due metri. (Si sono portati dietro medicinali anti-malaria anche se qui la malaria non esiste, e vogliono distribuirli mentre suonano il violino). Non mancano poi i vari funzionari delle tante agenzie ONU, i quali, quando li informi di un bambino affetto da leishmaniosi (malattia infettiva causata da un parassita trasmesso dalla puntura della cosiddetta mosca della sabbia), i cui genitori hanno bisogno di aiuto per portarlo in Turchia a curarsi, rispondono che non possono far nulla perchè si tratta di un unico bambino, e loro si occupano soltanto “dell’infanzia” come collettività. 

Ma in fondo siamo reporter di guerra, non è vero? Una banda di fratelli (e sorelle). Rischiamo la vita per dare voce a chi non ha voce. Abbiamo visto cose che la maggior parte della gente non avrà mai occasione di vedere nella vita. Abbiamo una mole di storie da raccontare a cena, gli ospiti in gamba che ricevono inviti da tutti. Eppure lo sporco segreto è che anziché essere uniti, diventiamo i nostri peggiori nemici; e la motivazione dietro ai 70 dollari ad articolo non è che non ci sono soldi, perché i soldi si trovano sempre per un pezzo sulle ragazze di Berlusconi. La vera ragione sta nel fatto che se tu chiedi 100 dollari, c’è qualcuno pronto a farlo per 70. Vige la concorrenza più feroce. Come Beatriz, che oggi mi ha dato le indicazioni sbagliate in modo da poter essere l’unica a seguire una certa manifestazione, e grazie al suo raggiro mi sono ritrovata davanti a una postazione di cecchini. E tutto per scrivere un pezzo su una manifestazione come centinaia di altre.   

Eppure fingiamo di essere qui in modo che domani nessuno potrà dire: “Non sapevo nulla di quanto stava accadendo in Siria”. Quando in realtà siamo qui solo per accaparrarci un qualche premio giornalistico, per conquistare visibilità. Ci azzuffiamo l’uno con l’altro come se ci fosse in ballo un Premio Pulitzer, quando invece non c’è assolutamente nulla. Ci troviamo schiacciati tra un regime che ti dà il visto solo se sei contro i ribelli e questi ultimi che, se stai dalla loro parte, ti fanno vedere solo quel che vogliono loro. La verità è che abbiamo fallito. Tra due anni i lettori ricorderanno a malapena dove si trova Damasco, e il mondo descriverà istintivamente con “un gran caos” quel che succede in Siria, perché nessuno capisce nulla di questo Paese – soltanto sangue, sangue, sangue. Ed ecco perché oggi i siriani non ci sopportano più. Perché facciamo vedere al mondo foto come quella del bambino di sette anni con la sigaretta e il Kalashnikov. Si tratta chiaramente di una foto artificiale, ma a marzo è apparsa su giornali e siti web di tutto il mondo, e la gente si è messa le mani nei capelli: “Questi siriani, questi arabi, che barbari che sono!”. Quando sono arrivata qui, i locali mi fermavano per dirmi: “Grazie perché mostrate al mondo i crimini del regime”. Oggi un uomo mi ha fermato dicendo: “Vergognatevi”.  

Se avessi davvero capito qualcosa della guerra, non mi sarei fatta distrarre dal tentativo di parlare dei ribelli e dei lealisti, dei Sunniti e degli Shia. Perché l’unica storia da raccontare in tempo di guerra è come poter vivere senza paura. Basta un attimo e tutto può finire. Se l’avessi capito prima, allora non avrei avuto paura di amare, di rischiare, nella mia vita – invece di ritrovarmi qui, adesso, in quest’angolo buio e puzzolente, a rimpiangere disperatamente tutto quel che non ho saputo fare, tutto quel che non ho saputo dire finora. Tu che domani sei ancora vivo, cosa aspetti? Perché non ami un po’ di più? Tu che hai tutto, di cos’hai paura? 

venerdì 12 luglio 2013

“Water and Shale gas development”: Accenture analizza l’esperienza USA

Oggi propongo un mio breve articolo che è stato pubblicato sul sito industriaenergia.it qualche giorno fa (clicca qui per il link).
La tematica dell'acqua è una delle mie passioni, e quindi anche saperne un pò di più sui consumi di acqua legati alla "famigerata" tecnica di perforazione chiamata "hydrofacking" risulta piuttosto interessante.

Buona lettura.

Imparare dalle esperienze passate e cercare di trarne il miglior insegnamento possibile.
Oltre ad essere un buon adagio da tenere sempre presente, questo è il concetto alla base del rapporto “Water and Shale gas development – Leveraging the US experience in new shale develoments”, pubblicato recentemente da Accenture.
Secondo il World Energy Outlook 2012, gli USA grazie allo shale-gas dovrebbero arrivare nel 2015 a diventare il primo produttore al mondo di gas naturale, sopravanzando la Russia. Per questo motivo, risulta interessante analizzare le esperienze che questo paese ha affrontato e continua ad affrontare dal punto di vista ambientale. Lo sfruttamento dello shale gas viene effettuato tramite una tecnologia di perforazione, detta “hydraulic fracking”, che, come si può capire dalla parola, comporta l’utilizzo di acqua. Molta acqua: il rapporto infatti, alle prime pagine, definisce la produzione di shale-gas come “highly water intensive”.
Il problema del consumo di acqua a scopo energetico è tutt’altro che marginale, tanto più se si considera che la IEA nel suddetto WEO 2012 ha inserito per la prima volta una sezione speciale denominata “Water for energy”, che contiene, tra l’altro, delle schede sui principali regional stress points: USA, Canada, Cina e India. I primi tre, guarda caso, sono proprio quelli con le più grandi riserve mondiali di shale-gas e tight-oil.
Nel rapporto vengono analizzate le principali aree di interesse relative al consumo di acqua per il processo di sfruttamento: la normativa, le tecnologie per il trattamento delle acque e le problematiche logistiche ed ambientali connesse al trasporto delle acque stesse. Sebbene una parte delle acque sia infatti riutilizzata, per tutta una serie di operazioni c’è ancora una forte necessità di acque “vergini”, che vanno quindi trasportate fino ai pozzi di estrazione del gas. Molto interessanti anche i focus su alcuni paesi considerati probabili prossimi sfruttatori di shale gas, viste le loro ingenti riserve: Argentina, Cina, Polonia e Sud Africa.
Sulla base di tutte queste considerazioni, il rapporto elabora delle lesson learned, che, come detto, potrebbero tornar utili a legislatori ed operatori del settore:
1. La raccolta e gestione dei dati riguardanti la gestione delle acque è un punto critico che va pianificato bene in tempo per evitare complicazioni burocratiche e aumento dei costi di sistema;
2. C’è la necessità di trovare un giusto equilibrio tra legislazione nazionale e regolamentazione locale, la quale può essere ottimizzata in funzione delle specifiche dell’area e delle tipologie di shale gas presente;
3. Lo scenario dello shale gas sta evolvendo rapidamente, quindi gli organismi regolatori non devono rimanere indietro, ma piuttosto essere efficienti, per poter guidare in maniera efficace e coerente gli operatori del settore;
4. Poiché i problemi e le soluzioni per il trattamento delle acque sono fortemente sito-specifiche, la condivisione tra diversi player che operano nella stessa area potrebbe contribuire significativamente per diffondere le best practices.
5. Le compagnie che oggi investono in soluzioni innovative per la gestione ed il trattamento delle acque, avranno un consistente vantaggio competitivo nel lungo termine, quando ci sarà un contesto regolatorio più stringente o una minore disponibilità di acque.
6. I modelli di gestione delle operazioni logistiche per la movimentazione delle acque avranno un impatto crescente sulle congestioni stradali e sulle efficienze di tutto il sistema.
Per finire il rapporto fa notare che il vero driver che guiderà lo sviluppo delle tecnologie per il trattamento e riutilizzo delle acque di processo è il prezzo del gas: con prezzi alti, gli operatori avranno più capitali da investire in questo tipo di iniziative, che saranno giustificate anche da un maggiore ritorno dal punto di vista dei costi di approvvigionamento di acque “vergini”.