domenica 30 giugno 2013

EU Energy Roadmap 2050: a trade off between climate change policies and competitiveness?

This is a brief paragraph of the European Energy Roadmap 2050.
It clearly describes one of the principal problems in implementing decarbonisation policies: international isolation and industrial competitiveness.
Someone says that EU don't take any care about this issue, but this paragraph let us understand that this criticism is not completely true.

Implementing the Energy Roadmap 2050, the EU will need to consider progress, and concrete action, in other countries. Its policy should not develop in isolation but take account of international developments, for example relating to carbon leakage and adverse effects on competitiveness. A potential trade-off between climate change policies and competitiveness continues to be a risk for some sectors especially in a perspective of full decarbonisation. The overall cost of investments depends strongly on the policy, regulatory and socio-economic framework and the economic situation globally. As Europe has a strong industrial base and needs to strengthen it, the energy system transition should avoid industry distortion and losses especially since energy remains an important cost factor for industry. Safeguard against carbon leakage will have to be kept under lose review in relation to efforts by third countries. As Europe pursues the path towards greater decarbonisation, there will be a growing need for closer integration with neighbouring countries and regions and building energy interconnections and complementarities. The opportunities for trade and cooperation will require a level playing field beyond the European borders.

venerdì 28 giugno 2013

Meno "rifiuti" a Roma!!

Come qualcuno saprà, in questi mesi ho frequentato un Master in Gestione delle Risorse Energetiche, e questo che segue è l'articolo che riassume il lavoro svolto dal nostro gruppo “Waste to Energy". 
Gli autori, in ordine alfabetico, sono:

Marco Campagna, Rachele Caracciolo, Luigi De Roma, Francesco Grasselli, Chiara Iobbi, Gianluca Pica.

Ogni domanda e curiosità è più che bene accetta!!
Buona lettura.

Rifiuti solidi urbani (RSU) di Roma: tanti, troppi. Che farne? È possibile sviluppare un sistema di gestione in grado di risolvere la situazione di emergenza? È questa la domanda alla quale abbiamo cercato di dare una risposta nel project work presentato il 14 giugno scorso alla Sala Capitolare della Biblioteca del Senato della Repubblica.
Per capire come poter risolvere il problema, siamo partiti dalla normativa che in Europa fa capo alla direttiva 2008/98/CE. Emanata per istituire la cosiddetta “Gerarchia dei rifiuti”, prevenzione, preparazione per il riutilizzo, riciclaggio, recupero energetico e solo in ultimo smaltimento, è atta a rompere la correlazione fra la crescita di popolazione e di rifiuti, non più sostenibile a livello mondiale. L’Italia, benché abbia recepito per prima la direttiva, introducendo anche criteri nazionali di “End of Waste” per la cessazione di qualifica di rifiuto, e benché abbia flussi di RSU pro capite annui in linea con la media comunitaria (500 kg l'anno), destina ancora alla discarica quasi il 50% dei RSU; mentre Stati membri con flussi molto maggiori hanno quasi azzerato le discariche grazie alle sinergie fra riciclaggio ed incenerimento, che in Italia rimangono ben lontani dagli obiettivi comunitari con percentuali rispettivamente del 34% ed del 15%. Quali sono, dunque, le ragioni di debolezza del sistema di gestione italiano, e che cosa si potrebbe fare per migliorarlo?
Guardando anzitutto al contributo delle imposte e delle tariffe, è evidente, nell’analisi cross country della Commissione europea, la diretta correlazione fra i costi totali di gestione [1] e la percentuale di riciclaggio. Come si evince dal grafico, l'Italia associa ad un costo totale di circa 130€, una percentuale di riciclaggio compatibile con la tendenza degli altri Stati membri. Ma guardando ad Austria e Germania sorge il dubbio se non si possa fare di meglio: i loro valori di riciclaggio, superiori alla tendenza comunitaria, sembrano dovuti all'implemento di una serie di divieti al conferimento in discarica, i quali, pur presenti anche in Italia, incontrano difficoltà nell'applicazione. A ciò si aggiungono i forti squilibri fra regioni e lo scarso ricorso al recupero energetico dei rifiuti.
Quest’ultimo risulta invece una leva fondamentale per la gestione dei rifiuti in Germania (con struttura industriale simile a quella italiana) anche grazie all'impiego dei CSS[2], che produce in quantità sei volte maggiori rispetto all’Italia. Inoltre in Italia il CSS è destinato in modo preponderante all’incenerimento ed in maniera ridotta al coincenerimento. Quest'ultimo, infatti, si limita ai cementifici, con una sostituzione termica media dell’8%, mentre nelle centrali termoelettriche è pressoché nullo: ad oggi l'unico caso è la centrale di Fusina con 50.000 t l'anno. Al momento, dunque, l’Italia non sfrutta tutti i vantaggi che il CSS potrebbe darle dal punto di vista sia economico che ambientale: risparmio di combustibili fossili, dovuto al coincenerimento nei forni industriali, ed aumento dei materiali recuperati, dovuto al necessario pretrattamento che ne ridurrebbe lo smaltimento.
La domanda che ci siamo posti è dunque la seguente: può il CSS contribuire a risolvere l'impasse gestionale verificatosi di recente nel Lazio? Questa regione, con circa 2,5 Mt l'anno, è al primo posto in Italia per smaltimento di RSU. Di questi, circa il 70% (1,8 Mt) è prodotto a Roma, dove ad oggi la RD copre solo il 26%, mentre ben 1,1 Mt, in deroga al DM 25/03/2013 che ne imponeva la chiusura, vanno nella “famigerata” discarica di Malagrotta (al costo di 72 €/t, tra i più bassi d’Italia). Alla luce di quanto detto è evidente che la soluzione all'emergenza del Lazio passa per Roma. Con tale decreto un primo risultato è stato raggiunto con l’azzeramento dello smaltimento di RSU tal quali in discarica poiché vengono pre-trattati nei 4 impianti di trattamento meccanico-biologico (TMB), sfruttati al massimo delle loro potenzialità, del comune ma si ricorre comunque per un 22% ad impianti di altre province. La legge regionale però impone l’autosufficienza degli ATO (Ambito Territoriale Ottimale). Quindi che altro si può fare?

Dai dati tecnici degli impianti presenti nel territorio comunale abbiamo ricavato differenti scenari per calcolare, fra le varie combinazioni di metodi di gestione realmente attuabili, la più adatta a raggiungere l'autosufficienza nella gestione dei RSU. Inoltre a completamento dell’analisi ambientale ed economica, per ogni scenario, abbiamo calcolato  i risparmi sulle emissioni di CO2 e sui costi di gestione. Il calcolo delle emissioni di CO2 considera il minor ricorso ai combustibili fossili, all’incenerimento ed allo smaltimento, al netto della CO2 derivante dalla produzione e combustione del CSS. I risparmi annui considerano i costi di smaltimento e di incenerimento, al netto dei nuovi costi per la produzione del CSS, per l'incentivo al coincenerimento e per l’aumento della RD.

In un primo scenario, definito “on the road”, ipotizziamo un aumento della RD fino al 35% riducendo così del 9% la dipendenza dagli impianti TMB fuori Roma. Consideriamo inoltre un impiego di CSS nei cementifici, con una sostituzione termica del 10% e nelle centrali termoelettriche per 35.000 t annue; la restante parte di CSS andrebbe a recupero energetico in inceneritori. Con queste misure si ridurrebbe di ben il 72% lo smaltimento attuale, riducendo inoltre la CO2 di 0,6 Mt e risparmiando 20 M€.

Il secondo scenario analizzato, definito “target”, ipotizza la RD al 49% ed il coincenerimento di CSS al 30% di sostituzione termica nei cementifici e 70.000 t annue nelle centrali termoelettriche. Con questi presupposti, si avrebbe un’ulteriore riduzione del 53% dello smaltimento, che ammonterebbe così a sole 130.000 t annue. La riduzione di CO2 sarebbe di 1 Mt mentre i risparmi scenderebbero a 10 M € per gli effetti congiunti sui costi considerati.

Il terzo ed ultimo scenario, detto “senza CSS”, permette di apprezzare il contributo di incenerimento e coincenerimento: mantenendo la RD al 49% (come nello scenario “target”) ma eliminando totalmente il ricorso a qualsiasi tipo di recupero energetico, abbiamo ottenuto l'eloquente risultato che lo smaltimento, rispetto allo scenario “target”, aumenterebbe del 300%, la CO2 evitata sarebbe solo 0,8 Mt ed i risparmi ammonterebbero a solo 5 M €.

Alla luce dell'analisi svolta, è evidente che la soluzione per Roma passa anzitutto per l'aumento della RD riducendo i gradini inferiori della gerarchia, in ossequio alla direttiva 2008/98/CE; questa sarebbe una misura in sé sufficiente a garantire il raggiungimento dell'autonomia provinciale, anche se abbiamo ritenuto che concentrarsi sul territorio comunale fosse più adatto ad accelerare le decisioni e quindi la fattibilità delle soluzioni proposte. Tuttavia, ciò che rende lo scenario “target” preferibile è proprio il ritorno dei RSU non differenziabili al circuito delle risorse in forma di CSS, che darebbe i maggiori benefici sotto il punto di vista ambientale ed economico.



[1]               Somma di tariffe ed imposte sullo smaltimento o l'incenerimento, le prime applicate dal gestore dell'impianto per coprire i costi, le seconde dall'amministrazione competente per scoraggiare tali forme di gestione.
[2]               Combustibile solido secondario, prodotto da rifiuti urbani e speciali non pericolosi, utilizzato nell'incenerimento e nel coincenerimento: è End of Waste se ricade in determinate classi secondo il potere calorifico inferiore, il contenuto di cloro ed il contenuto di mercurio).


sabato 15 giugno 2013

Quella sua maglietta fina - M. Gramellini

Gramellini ogni tanto ci azzecca decisamente, e questo è uno di quei casi.

Buona lettura. 

Vi sembra normale che la professoressa d’inglese di un istituto per geometri di Caserta abbia ordinato a un allievo di togliersi la maglietta recante l’effigie del senatore Berlusconi? Già l’idea di obbligare qualcuno a spogliarsi davanti a Berlusconi, sia pure soltanto in effigie, appare irta di insidie. E poi la professoressa d’inglese (o di sovietico?) non si è limitata a costringere il piccolo fan a togliersi la t-shirt. Gliel’ha fatta indossare al rovescio, come se tenere il Sorrisone a contatto della pelle fosse meno urticante che sbatterlo in faccia alle professoresse del comunismo mondiale. L’insegnante d’inglese (o di nordcoreano?) si sarebbe comportata allo stesso modo se la maglietta avesse avuto il volto di Vasco Rossi o Che Guevara, per citare due popstar altrettanto note, anche se meno poliedriche? E non ci venga a dire, la prof d’inglese (o di cubano?), che indossare a scuola la maglietta di un politico significa fare propaganda. Berlusconi non è un politico. Berlusconi è un’idea. La sua foto sprizzante voglia di vivere e di fregare il prossimo rientra nel catalogo delle icone moderne come la Marilyn di Andy Warhol.  

Il sopruso compiuto dalla docente d’inglese (o di tedesco dell’Est?) contraddice l’appello alla pacificazione lanciato dalle più alte cariche dello Stato. Quel ragazzo, che in realtà ha 82 anni e infatti è un giovane dirigente del Pd, indossava la maglietta di Berlusconi per dare il suo contributo al governo di larghe intese. Avergliela fatta togliere rivela il vero obiettivo di certe professoresse d’inglese: gettare questo Paese nel caos.

venerdì 14 giugno 2013

Italia, Malta e Libia: prossimo contenzioso internazionale per trivellare il Mediterraneo?

Per la rubrica di politica energetica internazionale, oggi presento il possibile nuovo capitolo del tutt'altro che inedito triangolo Italia-Malta-Libia.
L'articolo è tratto da Qualenergia, firmato da Peppe Croce.

Buona lettura.

Italia, Malta e Libia in cerca dell'ultimo posto al sole rimasto da trivellare nel Mar Mediterraneo. Negli ultimi mesi è ripartita la corsa al petrolio e al gas naturale da estrarre offshore nel Canale di Sicilia, di fronte le coste siciliane e maltesi. E questa corsa potrebbe portare a un contenzioso internazionale dal sapore ottocentesco.

Il 27 dicembre 2012 il già dimissionario ministro italiano per lo Sviluppo economico Corrado Passera firma un decreto ministeriale con il quale allarga a dismisura la piattaforma continentale italiana creando da zero la “Zona marina C – Settore sud”. Un'area marina enorme, grande quanto due terzi della Sicilia, che si sovrappone ad alcune aree già rivendicate da Malta.

L'isola dei Cavalieri, infatti, già a dicembre 2007 aveva stretto un accordo di production sharing con Heritage Oil plc, società indipendente con sede fiscale a Londra guidata dal sessantunenne Tony Buckingham. Un uomo che, per ammissione della stessa Heritage, prima di darsi al petrolio era in Executive Outcomes e poi in Sandlines International, entrambe compagnie militari private che hanno fatto affari con i Governi di Angola e Sierra Leone. Per il secondo hanno anche violato l'embargo sulla vendita di armi imposto dalle Nazioni Unite (fonte: The Guardian). Ma, tiene a precisare l'azienda, dal 2000 Buckingham non ha più alcun rapporto con i suoi ex colleghi d'armi.

Le aree concesse da Malta a Heritage Oil sono la 2 e la 7 e, adesso, fanno parte anche della nuova zona marina italiana. Ma non solo: nell'area 2 ricade anche il “Medina Bank 1”, un pozzo petrolifero trivellato nel 1980 dall'americana Texaco dopo aver ricevuto l'autorizzazione dal Governo maltese. Texaco non riuscì a trovare idrocarburi, ma scatenò lo stesso una controversia internazionale tra Malta e Libia che non è ancora ufficialmente chiusa.

Ai primi di dicembre 2012 l'allora primo ministro maltese, Lawrence Gonzi, si è recato in visita a Tripoli per discutere con l'omonimo libico Ali Zeidan delle zone marine contese: la 2 e la 7. Come riporta il Malta Independent non c'è stato alcun accordo perché, con dopo la caduta di Gheddafi, Malta ha sequestrato tutti i beni e i conti bancari che il colonnello aveva nell'isola e non ha intenzione di restituirli.

Precedentemente, nel 2008, la Libia aveva intimato con lettera formale a Heritage Oil di non dare inizio ad alcuna attività nelle aree contese. E ora arrivano anche gli italiani che, con la nuova zona marina, si vogliono prendere tutta l'area 2 e gran parte delle aree 1, 3 e 7.

I dubbi sul decreto ministeriale di Passera che ci fanno entrare a gamba tesa in questa contesa internazionale sono molteplici. E non solo quelli giuridici, ma anche quelli sulla semplice opportunità di rivendicare uno specchio di mare che Malta ha dichiarato proprio da oltre cinque anni e che anche la Libia in parte rivendica. E di farlo, soprattutto, proprio quando i colloqui tra Italia e Malta erano appena ricominciati dopo mesi di netta opposizione del nostro paese.

Il 27 settembre 2012, infatti, a Roma si è svolto il primo tavolo tecnico Italia-Malta che ha dato il via a un "informal preliminary scoping exercise, without prejudice of sovereign rights". Cioè al percorso diplomatico per arrivare ad un accordo preliminare sulla spartizione di quel tratto di mare conteso. Una seconda riunione si è tenuta a La Valletta il 10 dicembre 2012. Il 27 dello stesso mese, ad una settimana esatta dalla concessione della VIA all'elettrodotto che collegherà la Sicilia a Malta con enormi vantaggi soprattutto per quest'ultima (Qualenergia.it), il ministro Passera firma il decreto con cui l'Italia “cresce” nel Mediterraneo.

Per quale motivo, allora, rivendicare per decreto un'area sulla quale si sta già trattando con un altro Stato? “Si è deciso di riprendere questi tavoli per decidere quali sono gli interessi comuni da approfondire – ci spiega il capo della Direzione generale per le risorse minerarie ed energetiche del Ministero dello Sviluppo Economico, Franco Terlizzese - In questi tavoli ci siamo trovati in una situazione sbilanciata, perché Malta ha aperto unilateralmente delle aree sulle quali l'Italia rivendica la propria sovranità forte anche del diritto consuetudinario internazionale”.

Secondo Terlizzese, che nega però che l'Italia abbia rivendicato aree già contese dalla Libia, è vero che si tratta di una mossa unilaterale del nostro paese. Ma sarebbe una mossa di risposta alla fuga in avanti fatta da Malta del dicembre 2007. Di fatto ciò ci espone al rischio del contenzioso internazionale, che Terlizzese prevede favorevole per l'Italia: “È stata la mossa di Malta, di aprire unilateralmente diverse aree, a creare il rischio contenzioso. L'Italia ha recepito l'intenzione maltese di andare a vedere cosa c'è sotto queste aree: senza l'allargamento della zona marina C non avremmo potuto sederci al tavolo tecnico”.

Nel diritto internazionale vige il principio della buona fede: se c'è un accordo e uno dei due Stati lo viola allora è in torto. Ma, spiega ancora il DG Energia del MiSE, l'accordo non c'era ancora. Anzi, a dirla tutta non ci sono neanche verbali delle due riunioni del tavolo tecnico: “Stiamo discutendo in via informale, per vedere se possiamo fare esplorazioni comuni”.

Tuttavia l'Italia ha già messo le mani avanti, dichiarando apertamente le proprie intenzioni: il 28 febbraio 2013, quindi dopo i due tavoli tecnici e dopo l'emanazione del decreto Passera, il Ministero dello Sviluppo Economico pubblica un supplemento al Bollettino Ufficiale degli idrocarburi e delle georisorse intitolato "Il mare" (pdf).

Nell'introduzione del documento il MiSE afferma chiaramente: “Lo stato costiero esercita sulla piattaforma continentale diritti sovrani allo scopo di esplorarla e sfruttarne le risorse naturali, nessun altro può intraprendere tali attività senza il suo espresso consenso. Per risorse naturali si intendono le risorse minerali e altre risorse non viventi del fondo marino e del sottosuolo”.

Quindi il petrolio già rivendicato da Malta, e dalla Libia, è “nostro” e l'Italia non ha intenzione di concederlo a nessuno. E Terlizzese conferma: “Certo, nel diritto internazionale tutti gli Stati decidono unilateralmente, di solito in seguito ad accordi con gli Stati limitrofi. In questo caso non c'è l'accordo perché Malta ha deciso che parte di quelle acque è di sua competenza. Una situazione di contenzioso relativamente comune in molte aree geografiche”.

Tuttavia la stampa internazionale di settore non si è ancora accorta delle ferme intenzioni italiane: il quotidiano online RigZone il 30 maggio canta le lodi del potenziale offshore di Malta, e descrive i tanti interessi già manifestati dalle compagnie petrolifere, senza però citare minimamente né i due tavoli tecnici né la nuova “Zona marina C – Settore sud”. Ma riporta le recenti dichiarazioni di Heritage sul “potenziale inesplorato” del suo portafoglio maltese.

La stessa Heritage, nel suo Interim Management Statement, pubblicato il 16 maggio 2013, non parla della disputa tra Italia e Malta, ma dovrebbe, come conferma Terlizzese, che sui probabili futuri contenziosi con le compagnie già titolari di licenze maltesi afferma: “Queste società erano pienamente consapevoli, come lo sono le tante altre aziende che hanno manifestato interesse per quelle aree”. E di aziende che hanno manifestato interesse ce ne sarebbero parecchie.

Uscendo dalle questioni internazionali e venendo a quelle nazionali la situazione non è meno problematica. È vero che le zone marine della piattaforma continentale sono state istituite con la Legge 21 luglio 1967, n. 613, e che possono essere ampliate per decreto dal ministro dello Sviluppo economico (secondo l'articolo 3, comma 2, del Decreto Legislativo 625 del 1996), ma è anche vero che Corrado Passera al momento della firma doveva solo gestire l'ordinaria amminstrazione.

Mario Monti è salito al Quirinale per le dimissioni il 6 dicembre e il suo Governo è rimasto in carica per l'ordinaria amministrazione fino all'insediamento di Letta. Ma si può considerare l'allargamento del mare nazionale ordinaria amministrazione? È ordinaria amministrazione emanare un decreto sapendo che ci esporrà a un contenzioso internazionale?

Come finirà questa faccenda non lo sa neanche il Direttore Generale Terlizzese: “È cambiato il Governo italiano, è cambiato il Governo maltese, ci risiederemo al tavolo e vedremo”.

giovedì 6 giugno 2013

Sulla Turchia soffia il fuoco della Siria

Come qualcuno dei miei lettori saprà, ho vissuto ad Istanbul per 5 mesi: per questo sento in maniera piuttosto vicina quello che sta succedendo in questi giorni proprio in quella città (ma non solo).
Propongo a riguardo una interessante intervista rilasciata da Franesca Maria Corrao a Giulia Balardelli (Huffington Post).

Buona lettura

"Il popolo turco è un popolo maturo, emancipato, abituato alla laicità da oltre un secolo. È comprensibile che si ribelli di fronte a un irrigidimento della libertà d'espressione. Il vero problema è un altro: la Turchia sta diventando sempre più incandescente perché assorbe tutta la tensione della crisi siriana. Se non si trova presto una soluzione, il caos travolgerà non solo la Turchia, ma tutta l'Europa, a cominciare dall'Italia. E allora sì che dovremo accorgercene per forza".

Non è certo rassicurante la lettura che delle proteste turche dà Francesca Maria Corrao, professoressa ordinaria di Lingua e Cultura Araba presso il Dipartimento di Scienze Politiche dell'Università LUISS di Roma, esperta di storia e cultura dei paesi arabi.

Secondo Corrao, la rabbia dei manifestanti affonda sì le sue radici negli ultimi provvedimenti adottati dal governo Erdogan, ma è anche un sintomo della paura e delle tensioni per il conflitto in Siria. La stessa rigidità del premier turco (che in altre occasioni "ha dimostrato buon senso") e l'eccesso di violenza da parte della polizia ("scene da G8 di Genova", commenta), sono per Corrao altrettante spie dell'incessante sgretolarsi di uno status quo che non è più sostenibile.

Cosa sta succedendo in Turchia? Gli scontri degli ultimi giorni l'hanno sorpresa oppure erano ampiamente prevedibili?

Non è una sorpresa. Parte della popolazione turca è stanca di vedere restringersi il campo delle libertà individuali. Già il primo maggio c'erano state forti proteste, e anche in quel caso la reazione della polizia era stata molto dura. Per i giovani di Istanbul, il parco Gezi è un simbolo, il polmone verde della città. Ho vissuto per un anno a Istanbul e so di cosa parlo. È come se ai romani venisse imposto di rinunciare a Villa Borghese. È chiaro che si arrabbierebbero, scenderebbero in strada anche le signore ingioiellate, altro che giovani di Occupy. E tutto perché? Per costruire - poniamo - una nuova moschea e un centro commerciale per soddisfare le richieste di sviluppo commerciale in linea con la politica del Qatar...

La difesa del parco, però, è stata "soltanto" una miccia... Quali sono i provvedimenti che proprio non vanno giù ai laici?

Le donne, in particolare, sono indignate per il discorso della pillola del giorno dopo (prima si prendeva senza ricetta, ora è stata vietata). Poi c'è la nuova legge sull'alcol che proibisce il consumo di bevande alcoliche in pubblico e la vendita entro 100 metri da scuole e moschee. Senza dimenticare la censura, sia politica che culturale. Molti professori hanno incontrato ostacoli nell'insegnamento, sono stati allontanati o comunque gli è stato impedito di svolgere liberamente la loro attività. Per non parlare dei giornalisti (secondo il Committee to Protect Journalists, in Turchia sono in carcere più giornalisti che in Cina e in Iran, ndr). Diciamo che negli ultimi anni ci sono stati pesanti segnali di irrigidimento.

Cosa chiedono i giovani della Turchia? Quali sono le loro speranze? Quali le loro paure?

Vogliono che la cultura laica del Paese venga rispettata, chiedono garanzie di libertà e buon senso. Molti di questi ragazzi sono disperati: da un lato si vedono scappare quegli aspetti della democrazia che avevano conquistato; dall'altro hanno paura, sentono addosso tutta la tensione del confine con la Siria. L'applicazione di alcune norme restrittive - seppur rispettose di una parte musulmana della popolazione - rischia di far saltare il coperchio.

Cosa dobbiamo aspettarci dal governo turco in questo momento?

È difficile dirlo. Il Paese sta affrontando un importante momento di trasformazione. Non dobbiamo dimenticare che la pacificazione con i curdi rappresenta un passaggio fondamentale, oltre che una prova di maturità da parte del governo. Erdogan è alle prese con pressioni esterne sempre più forti. Da un lato il Qatar, con le sue esigenze di sviluppo economico ai danni dell'ambiente; dall'altro la crisi siriana che è un vero e proprio buco nero. Di sicuro reprimere il dissenso in modo così violento non fa altro che acuire la rabbia della popolazione. Ed è un rischio che non solo la Turchia, ma tutta l'Europa non si può permettere...

Quale potrebbe essere il contributo dell'Europa - e dell'Italia in particolare - in questo momento?

Spingere sulla strada del dialogo per mettere fine alla guerra civile in Siria. I modi ci sono, ma serve una volontà incrollabile da parte di tutti. L'Italia, con il ministro Bonino, si sta muovendo nella direzione giusta. Dobbiamo capire una volta per tutte che la crisi siriana è un problema che ci tocca direttamente, non solo in termini di diritti umani, ma anche di immigrazione, sicurezza, gasdotti e via dicendo. Se la situazione in Siria diventa ingestibile, gli effetti dalla Turchia si ripercuoteranno su tutta l'Europa. Potremmo ritrovarci di fronte a una terza guerra mondiale così, senza neanche rendercene conto...

domenica 2 giugno 2013

Shale-gas con le "bolle", di Marco Campagna

Di shale-gas, shale-oil e shale-qualsiasi-altra-cosa si sente ormai parlare dovunque e da chiunque.
Di sicuro ha generato un nuovo dinamismo in un mercato che, prezzo del greggio OPEC-dipendente e qualche altro parametro a parte, era diventato un po' noiosetto. 
Gli spunti non mancano, dalle stra-sentite previsioni di indipendenza energetica degli USA entro il 2030 o giù di lì, passando per la conversione degli stessi USA da importatore ad esportatore netto (IEA docet), fino agli stravolgimenti negli assetti geopolitici del globo (vedi  New York Times) e i possibili impatti ambientali (vedi  The Guardian o New York Times).
Da poco ho letto un interessante contributo di Guido Plotino del Sole24Ore (lo trovate qui), dove si prova ad immaginare cosa succederebbe (o succederà) se anche la Cina si butterà sul famoso e super-promettente (!) shale-gas.
Non dimentichiamo, per completare il quadro, il coro di chi mette in allerta l'Europa a non perdere il "treno energetico" del nuovo millennio.
In effetti, nonostante il sensazionalismo generale, non tutti sono così convinti, e qualcuno prospetta l'ipotesi di una "bolla" dello shale-gas, sia per motivi tecnici che finanziari.
Per quanto riguarda i motivi tecnici, Andy Hall, ovvero un trader dotato di un "certo" intuito (ha fatto soldi scommettendo che negli anni 2000 il prezzo del barile sarebbe andato dai 20 fino ai 100 dollari), fa notare che ogni perforazione dà accesso solo a una piccola sacca di gas e petrolio, anziché a vaste riserve. Per questo, nonostante i pozzi siano inizialmente prolifici, la produzione declina rapidamente: per mantenerla a un livello costante bisogna trivellare di continuo nuovi pozzi, cosa impossibile da fare senza prezzi del barile sufficientemente alti.
Il guru del trading sembra condividere l'analisi fatta dal report del Post Carbon Insitute: i maggiori 5 pozzi di shale gas USA attualmente in produzione hanno tassi di declino della produttività dall'80 al 95% sui primi 36 mesi e in generale dal 30 al 50% della produzione di gas da scisti deve essere rimpiazzata ogni anno con nuovi pozzi: per mantenere il livello si dovrebbero trivellare 7.200 nuovi pozzi l'anno. Servirebbe cioè un investimento di 42 miliardi di dollari l'anno: una cifra nettamente superiore ai ricavi dalle vendite, che sono di 33 miliardi l'anno.
Sull'argomento si è pronunciato anche il FMI, con un documento di fine 2012 del Fondo Monetario Internazionale che collegava domanda e offerta di petrolio (con dentro la "bolla", così chiamata dal FMI, dello shale oil) al rischio di una nuova fase recessiva molto acuta.

Per quanto riguarda il lato finanziario, gli analisti del PCI in un altro report azzardano una motivazione del perché ci sia ancora chi dipinge lo shale come un buon investimento, nonostante i dati di cui sopra.
Nel 2011, si spiega, le operazioni di fusione e acquisizione legate agli idrocarburi da scisti a Wall Street hanno raggiunto il volume di 46,5 miliardi di dollari e sono diventate il più grande centro di profitto per diverse banche d'investimento. Questo è avvenuto nonostante i pozzi in questo periodo non abbiano mantenuto le promesse in termini di resa: gli operatori hanno sovrastimato le riserve di shale gas e shale oil dal 100 al 500% rispetto alla produzione effettivamente registrata.
Per portare la produzione ai livelli attesi si è spinto a trivellare ancora di più, arrivando a un eccesso di offerta, che ha spinto i prezzi tanto in basso da essere quasi insostenibili: come detto, per mantenere la produzione servirebbero più investimenti di quanto si ricava dalla vendita. I prezzi bassi hanno aperto la porta ad altre fusioni e acquisizioni, che hanno fruttato miliardi alle banche d'investimento. Molti pozzi sono stati venduti a grandi dell'energia ma si sono anche messi in circolazione strumenti finanziari complessi come i VPP (volumetric production payments) spesso piazzati, assieme ad altri asset su riserve non provate, a investitori che - a differenza di Andy Hall - hanno scarsa dimestichezza con le complesse dinamiche della produzione da fossili, come i fondi pensione.

Una dinamica che ricorda in maniera preoccupante quella che ha innescato la crisi: la corsa nel 2007 a scaricare ad altri i famigerati subprimes sui mutui. Titoli che altro non erano se non promesse che non potevano essere mantenute, proprio come, secondo i dati esposti sopra, potrebbero non essere mantenute le promesse su shale-gas e shale-oil.


Più energia per il Dragone

Cosa succederebbe (o succederà) se la Cina, con la sua fame di energia, si buttasse (o butterà) sullo shale-gas?
Guido Plutino del Sole24Ore prova a dare una risposta.

Buona lettura.


Per usare un’espressione ormai entrata a pieno titolo nel lessico comune, anche il mondo dell’energia sta attraversando “terre incognite”. Data la grande rilevanza di questo settore, cercare di orientarsi in uno scenario in rapida evoluzione è importante anche in termini di scelte di asset allocation e delle conseguenti possibilità di guadagno.
Naturalmente il riferimento principale è alla rivoluzione in corso, legata alla scoperta di larghe disponibilità di risorse di petrolio e gas “scisto” (shale oil e shale gas). Questo nuovo fattore ha modificato in profondità e probabilmente in modo permanente gli equilibri dell’economia globale, data l’importanza delle quantità in gioco e la rilevanza delle aree nelle quali si trovano.
Come è ormai noto, in questo processo gli Stati Uniti sono in prima fila. Inoltre un aspetto interessante per gli assetti complessivi del mercato è rappresentato dal fatto che le risorse estratte dalle rocce profonde per ora passano quasi interamente “dal produttore al consumatore”.
I Paesi che hanno avviato lo sfruttamento con questa tecnica di estrazione consumano quasi integralmente al loro interno le risorse energetiche ottenute (il che rappresenta anche un vantaggio competitivo per agganciare la ripresa), muovendosi rapidamente verso il traguardo dell’autosufficienza. Nel caso degli Stati Uniti, come prevede lo studio Us energy independence di Société Générale, la quasi totale indipendenza energetica potrebbe essere raggiunta entro il 2020.
A differenza delle risorse provenienti dai giacimenti tradizionali, per il momento le quantità messe in vendita nel circuito internazionale sono dunque ridotte. Questo evita il pericolo di alimentare una già elevata finanziarizzazione del settore moltiplicando ulteriormente i “barili di carta”.
Fin qui i punti già (relativamente) chiari. Tuttavia, data la crescente rilevanza del fenomeno, molti altri aspetti di pari importanza restano da comprendere e da misurare nei loro effetti. Anche dal punto di vista degli investitori, forse il principale riguarda l’estensione geografica della rivoluzione shale: riguarderà solo l’economia e le aziende statunitensi? E in caso contrario, fin dove si spingerà?
Le risorse da scisto sono presenti in grandi quantità in 32 Stati, dall’Europa all’Africa, per un totale stimato in oltre 6 volte quello relativo agli Usa. Ciò però al netto della non irrilevante questione della qualità. «Nei bacini americani – spiega infatti Nicolò Carpaneda, investment specialist di M&G – le rocce sono spesso più vicine alla superficie, quindi più facilmente raggiungibili, e più porose, il che facilita l’estrazione del gas, mentre in altre aree le riserve sono più profonde e meno accessibili, con conseguenti problemi tecnici e aumento dei costi».
La zona meno promettente (per ragioni di diversa natura, da quelle giuridiche a quelle legate a sensibilità ambientali) è l’Europa, dove infatti la maggior parte delle operazioni di perforazione è stata sospesa o vietata.
Ma ancora una volta, l’elemento centrale da considerare è l’Impero del Dragone. «In Cina prevale l’euforia – riprende Carpaneda – e gli sviluppi positivi non mancano. L’opinione pubblica locale è ancora scossa dai recenti dati sulla pessima qualità dell’aria in molte città. Il Paese, che secondo le stime ha le maggiori riserve di gas scisto a livello mondiale, si sta muovendo verso fonti più pulite e ha una fame tremenda di energia. Il problema principale, in Cina come altrove, consisterà nella scelta della tecnologia più efficace per lo sfruttamento di risorse difficili da raggiungere».
Il nodo della questione si chiama fracking, termine che indica il procedimento per fratturare le rocce ed estrarre gas e petrolio. Si tratta di una tecnica estremamente costosa e ancora in via di perfezionamento: tra il 2008 e il 2012 si stima che negli Usa abbia richiesto investimenti per circa 150 miliardi di dollari. Una parte rilevante di questo denaro è stata investita da soggetti stranieri e, tra questi, i maggiori contributor sono proprio le imprese cinesi, a caccia di competenze da riutilizzare in patria oltre che di buoni affari.
Un eventuale successo cinese nello sfruttamento di shale gas e shale oil rivoluzionerebbe integralmente lo scenario dell’economia mondiale. È ancora difficile prevedere se e quando questo avverrà, dal momento che sono in gioco numerosi fattori tecnici, politici e di mercato. «Ma proviamo a immaginare uno scenario che non è poi così remoto – conclude Carpaneda -: nel lungo periodo il gas di scisto americano potrebbe rendere meno di quanto si speri, mentre in Cina e in Europa lo sfruttamento di queste risorse potrebbe accelerare, rimodellando non solo il mercato dell’energia, ma anche gli equilibri commerciali e geopolitici mondiali».
Il risparmiatore medio italiano, con un portafoglio quasi interamente impiegato in strumenti nazionali e fortemente sbilanciato su prodotti di liquidità, è avvertito.