mercoledì 20 agosto 2014

Il gran navilio, di Galileo Galilei

Ecco il testo originale dell'esperienza del "gran naviglio", riportato nella seconda giornata dei "Dialoghi sopra i due massimi sistemi del mondo", pubblicato nel 1632 da Galileo Galilei.
L'esperimento spiega in maniera chiara e anche piuttosto pittoresca il principio di relatività galileiana.

La prima volta che lo lessi, ai tempi del liceo, ne rimasi colpito per la sistematicità nella descrizione dei dettagli e dei particolari e soprattutto per la linearità e razionalità del ragionamento.

Buona lettura.

Riserratevi con qualche amico nella maggiore stanza che sia sotto coverta di alcun gran navilio, e quivi fate d'aver mosche, farfalle e simili animaletti volanti; siavi anco un gran vaso d'acqua, e dentrovi de' pescetti; sospendasi anco in alto qualche secchiello, che a goccia a goccia vadia versando dell'acqua in un altro vaso di angusta bocca, che sia posto a basso: e stando ferma la nave, osservate diligentemente come quelli animaletti volanti con pari velocità vanno verso tutte le parti della stanza; i pesci si vedranno andar notando indifferentemente per tutti i versi; le stille cadenti entreranno tutte nel vaso sottoposto; e voi, gettando all'amico alcuna cosa, non piú gagliardamente la dovrete gettare verso quella parte che verso questa, quando le lontananze sieno eguali; e saltando voi, come si dice, a piè giunti, eguali spazii passerete verso tutte le parti. 

Osservate che avrete diligentemente tutte queste cose, benché niun dubbio ci sia che mentre il vassello sta fermo non debbano succeder cosí, fate muover la nave con quanta si voglia velocità; ché (pur che il moto sia uniforme e non fluttuante in qua e in là) voi non riconoscerete una minima mutazione in tutti li nominati effetti, né da alcuno di quelli potrete comprender se la nave cammina o pure sta ferma: voi saltando passerete nel tavolato i medesimi spazii che prima, né, perché la nave si muova velocissimamente, farete maggior salti verso la poppa che verso la prua, benché, nel tempo che voi state in aria, il tavolato sottopostovi scorra verso la parte contraria al vostro salto; e gettando alcuna cosa al compagno, non con piú forza bisognerà tirarla, per arrivarlo, se egli sarà verso la prua e voi verso poppa, che se voi fuste situati per l'opposito; le gocciole cadranno come prima nel vaso inferiore, senza caderne pur una verso poppa, benché, mentre la gocciola è per aria, la nave scorra molti palmi; i pesci nella lor acqua non con piú fatica noteranno verso la precedente che verso la sussequente parte del vaso, ma con pari agevolezza verranno al cibo posto su qualsivoglia luogo dell'orlo del vaso; e finalmente le farfalle e le mosche continueranno i lor voli indifferentemente verso tutte le parti, né mai accaderà che si riduchino verso la parete che riguarda la poppa, quasi che fussero stracche in tener dietro al veloce corso della nave, dalla quale per lungo tempo, trattenendosi per aria, saranno state separate; e se abbruciando alcuna lagrima d'incenso si farà un poco di fumo, vedrassi ascender in alto ed a guisa di nugoletta trattenervisi, e indifferentemente muoversi non piú verso questa che quella parte.

sabato 2 agosto 2014

La sconfitta morale di Israele ci perseguiterà per anni - Amira Haas

Dopo Gideon Levy, oggi è la volta di Amira Haas, giornalista israeliana che vive a Ramallah, in Cisgiordania, e scrive per il quotidiano Ha'aretz.
L'articolo è tratto da Internazionale, dove lei ha una rubrica.

Buona lettura.

Se la vittoria si misura con il numero dei morti, allora Israele e il suo esercito hanno stravinto. Dal momento in cui scrivo queste parole (il 26 luglio) al momento in cui voi le leggerete i morti saranno più mille (di cui il 79-80 per cento civili).

Di quanto aumenterà il conto? Dieci morti? Diciotto morti? Altre tre donne incinte? Altri cinque bambini, con gli occhi socchiusi, la bocca spalancata e i denti da latte sporgenti, con le magliette che grondano sangue mentre i corpi vengono portati via, ammassati su una barella? Se vincere significa costringere l’avversario a caricare i bambini massacrati su un’unica barella (perché le barelle non bastano) allora il capo di stato maggiore Benny Gaz e il ministro della difesa Moshe Ya’alon hanno vinto, e insieme a loro hanno vinto tutti quelli che li ammirano.

Un premio spetta anche alla startup nation, per aver riportato il minor numero possibile di notizie nonostante tutti mezzi d’informazione internazionali disponibili. “Buongiorno, è stata una notte tranquilla”, annunciava allegramente la radio dell’esercito il 24 luglio. Il giorno prima le forze di difesa israeliane avevano ucciso 80 palestinesi, di cui 64 civili, inclusi 15 bambini e cinque donne. Almeno trenta persone erano state ammazzate durante la stessa “notte tranquilla” di cui parlava l’esercito. Sono morti a causa delle schegge, delle bombe e delle pallottole israeliane (per non parlare del numero di feriti e di case distrutte).

Se la vittoria si misura con il numero di famiglie spazzate via nel giro di due settimane (con tutte le combinazioni possibili tra genitori, figli, nonni, nuore, generi, nipoti, cognati) allora Israele ha vinto nettamente. Ecco alcuni cognomi: Al Najjar, Karaw’a, Abu-Jam’e, Ghannem, Qannan, Hamad, Al Salim, Al Astal, Al Hallaq, Sheikh Khalil, Al Kilani. In queste famiglie i pochi sopravvissuti ai bombardamenti delle ultime due settimane si ritrovano a provare invidia per i morti.

E non possiamo dimenticare una corona d’alloro per i nostri esperti legali, senza i quali l’Idf non muove un dito. Grazie a loro far saltare in aria una casa (vuota o piena) è un atto facilmente giustificabile. Basta sostenere che uno dei componenti della famiglia è un bersaglio legittimo (un esponente di Hamas, un soldato, un politico di qualsiasi tipo, un membro della famiglia o soltanto un ospite). “Se tutto questo è legale secondo il diritto internazionale”, mi ha confessato un diplomatico sbalordito per il sostegno accordato dal suo paese a Israele, “allora significa che c’è qualcosa di sbagliato nel diritto internazionale”.

Un altro bouquet di fiori va ai nostri consulenti, laureati delle più esclusive facoltà di diritto di Israele e degli Stati Uniti (e forse anche del Regno Unito). Sono loro a consigliare all’Idf di sparare sulle squadre di soccorso per impedirgli di aiutare i feriti. Nelle ultime due settimane sono stati uccisi sette componenti delle squadre di soccorso, due soltanto il 25 luglio. Altri 16 sono stati feriti, e il conto non include i casi in cui gli attacchi dell’Idf hanno impedito ai soccorritori di arrivare in macchina sul luogo di un disastro.

Qualcuno di voi ripeterà la litania dell’esercito, secondo cui “i terroristi si nascondono nelle ambulanze”. Certo, perché i palestinesi non vogliono salvare i feriti, non vogliono evitare che muoiano dissanguati in mezzo alle macerie. È questo che pensate, vero? Siete davvero convinti che i nostri infallibili servizi d’intelligence (che da anni ignoravano l’esistenza della rete di tunnel sotterranei) potessero sapere in tempo reale che in ogni ambulanza colpita o bloccata dall’Idf si nascondevano palestinesi armati? Perché è lecito far saltare in aria un intero quartiere per salvare un soldato israeliano ferito ma non si può fare nulla per salvare un anziano palestinese intrappolato tra le macerie? Perché è proibito salvare un uomo armato, o più precisamente un combattente palestinese, che è stato ferito mentre cercava di respingere un esercito invasore?

Se la vittoria si misura con la capacità di provocare un trauma devastante (e non per la prima volta) a 1,8 milioni di persone che aspettano solo la morte, allora la vittoria è vostra.

Questi trionfi alimentano la nostra implosione morale, la sconfitta etica di una società che non intende guardarsi allo specchio, che si lamenta per il ritardo di un volo e nel frattempo si considera composta da uomini illuminati. Una società che piange i suoi 40 soldati morti ma allo stesso tempo è insensibile alla sofferenza e al coraggio del popolo che sta attaccando. Una società che non capisce fino a che punto le forze in campo sono squilibrate.

“Nella sofferenza e nella morte”, mi ha scritto un amico da Gaza, “ci sono grandi manifestazioni di tenerezza e bontà. Le persone si aiutano a vicenda, si consolano. I bambini cercano di aiutare i genitori come meglio possono. Ho visto molti bambini non più grandi di 10 anni abbracciare i fratelli più piccoli per cercare di distrarli dall’orrore. Così giovani, ma già responsabili per qualcun altro. Non ho incontrato un solo bambino che non abbia perso qualcuno. Un genitore, un nonno, una zia, un amico o un vicino. Se Hamas è emerso dalla generazione della prima intifada, quando i giovani che lanciavano pietre ricevevano in cambio pallottole, cosa nascerà dalla generazione che negli ultimi sette anni è stata brutalmente e sistematicamente massacrata?”.

La nostra sconfitta morale ci perseguiterà per molti anni.

(Traduzione di Andrea Sparacino)


mercoledì 30 luglio 2014

Rocco Chinnici, un uomo che andava controcorrente - di Paolo Borsellino

Questo testo è estratto dalla prima parte della prefazione di Paolo Borsellino al libro di interventi di Rocco Chinnici, "L'illegalità protetta. Attività criminose e pubblici poteri nel meridione d'Italia."
Quanta umiltà, saggezza e amore nei confronti di colui che è considerato il padre del pool antimafia che istituirà il primo maxiprocesso contro Cosa nostra.

Buona lettura.

Ho riletto con intensa emozione questi brevi scritti di Rocco Chinnici, che mi hanno fatto ricordare altri suoi interventi pubblici e tante altre conversazioni quotidiane che avevo con lui, di cui purtroppo è rimasta traccia solo nella mia memoria ed in quella di coloro che ebbero la fortuna di ascoltarlo.
Rocco fu assassinato nel luglio del 1983, agli inizi di questo decennio, quando ancora erano grandemente lacunose le concrete conoscenze sul fenomeno mafioso, che non era stato ancora visitato dall’interno, come poi fu possibile nella stagione dei “pentiti”.
Eppure la sua capacità di analisi e le sue intuizioni gli avevano permesso già nel 1981 (è questo l’anno di ben tre dei quattro scritti pubblicati) di formarsi una visione del fenomeno mafioso che non si discosta affatto da quella che oggi ne abbiamo, col supporto però di tanto rilevanti acquisizioni probatorie, passate al vaglio delle verifiche dibattimentali.
Le dimensioni gigantesche della organizzazione, la sua estrema pericolosità, gli ingentissimi capitali gestiti, i collegamenti con le organizzazioni di oltreoceano e con quelle similari di altre regioni d’Italia, le peculiarità del rapporto mafia-politica, la droga ed i suoi effetti devastanti, l’inadeguatezza della legislazione: c’è già tutto in questi scritti di Chinnici, risalenti ad un periodo in cui scarse erano le generali conoscenze ed ancora profonda e radicata la disattenzione o, più pericolosa, la tentazione, sempre ricorrente, alla convivenza. 
Eppure, né generale disattenzione né la pericolosa e diffusa tentazione alla convivenza col fenomeno mafioso, spesso confinante con la collusione, scoraggiarono mai quest’uomo, che aveva, come una volta mi disse, la “religione del lavoro”.
Egli era divenuto, alla fine degli anni ‘70, dirigente dell’ufficio istruzione del Tribunale di Palermo. E proprio in quegli anni divampò la così detta “guerra di mafia” e si verificarono, non i primi, ma sicuramente i più clamorosi delitti eccellenti.
A capo della struttura giudiziaria più esposta d’Italia, si prefisse di potenziarla opportunamente e renderla efficace strumento di quelle indagini nei confronti della criminalità organizzata, troppo a lungo trascurate in precedenza.
Uno per uno ci scelse: noi magistrati che solo dopo la sua morte avremmo costituito il così detto “pool antimafia”. Ci prospettò lucidamente le difficoltà ed i pericoli del lavoro che intendeva affidarci, ci assistette e ci spronò a superare diffidenze e condizionamenti: ché allora, con carica non meno insidiosa dell’arrogante tracotanza di oggi, così si manifestavano gli ostacoli frapposti dalla “palude” al nostro lavoro. 
Credeva fermamente nella necessità del lavoro di équipe e ne tentò i primi difficili esperimenti, sempre comunque curando che si instaurasse un clima di piena e reciproca collaborazione e di circolazione di informazioni fra i “suoi” giudici. Per suo merito, nell’estate del 1983, si erano realizzate, pur nell’assenza di una idonea regolamentazione legislativa, ancora oggi mancante, tutte le condizioni per la creazione del pool antimafia, che, infatti, subito dopo fu possibile realizzare sotto la direzione di Antonino Caponnetto, il quale continuò meritoriamente l’opera di Rocco Chinnici e ne realizzò il disegno, pur avendo una personalità completamente diversa dall’altro, ma animato da eguale tensione morale e spirito di sacrificio.
Un sereno spirito di sacrificio animò sempre la vita di Rocco Chinnici, il quale non cessò mai di essere consapevole, molto più di quanto sia ragionevole credere, dell’altissimo rischio personale connesso alla sua attività. Egli “sapeva” che la stessa sua vita era un pericolo per le organizzazioni mafiose ed i loro fiancheggiatori e quindi ben presagiva la sua fine. Sapeva che con la sua uccisione si sarebbe tentato di spazzar via le conoscenze e la sua volontà di riscatto e lucidamente non si stancò mai di trasmettere le une ed infondere l’altra sia ai suoi più stretti collaboratori sia a chiunque con cui potesse venire in contatto. E ciò faceva quasi affannosamente, pressato dall’urgenza dei tempi, poiché sentiva montare attorno a lui la minaccia che già aveva prodotto i suoi tragici effetti con Pio La Torre e Carlo Alberto Dalla Chiesa, le cui uccisioni lo avevano profondamente addolorato ma non impaurito né demotivato. 
Chi gli visse accanto in quell’ultimo tragico anno della sua esistenza sa con quale impegno ed abnegazione, giorno e notte, con orari impossibili, continuò a lavorare nell’istruzione di quel procedimento, allora detto “dei 162”, che costituì l’embrione iniziale del primo maxiprocesso alle cosche mafiose, oggi giunto alla sua seconda verifica dibattimentale.
Gli era così chiara l’unitarietà e l’interdipendenza fra tutte le famiglie mafiose e palese la connessione fra tutti i loro principali delitti (concetti che oggi fanno parte del patrimonio comune di chiunque si occupi di criminalità mafiosa, sebbene talune poco convincenti decisioni della Cassazione li abbiano posti recentemente in dubbio) che a lui risalgono la paternità o almeno l’ispirazione dei primi provvedimenti di riunione delle istruttorie sui grandi delitti di mafia. Era convinto che solo con un grande sforzo, inteso ad affrontare unitariamente l’esame del fenomeno, cercando di cogliere tutte le interconnessioni fra i grandi delitti, fosse possibile fare su di essi chiarezza, individuandone le cause e gli autori. Sforzo giudiziario reso necessario dalla inerzia investigativa del precedente decennio, la quale aveva creato un vuoto che lui ed i suoi giudici erano chiamati a colmare.
Questa fu poi la ragione ispiratrice del maxiprocesso: non astratto modello di indagine giudiziaria, non scelta fra diverse metodologie istruttorie, ma via obbligata da perseguire in quel determinato momento storico, nel quale mancava del tutto una risposta giudiziaria che costituisse punto di riferimento certo per le successive attività investigative.
Ma gli erano chiari altresì i limiti invalicabili della risposta giudiziaria alla mafia. Profondamente giudice, ben sapeva che suo compito istituzionale era esclusivamente quello di accertare l’esistenza di reati ed individuarne i colpevoli. Attività non idonea a debellare le radici socio-economiche e culturali della mafia, così profondamente inserita nella realtà del paese da trovare la forza di riprendersi, con accentuata ferocia, dopo ogni “successo” giudiziario nei suoi confronti.
Per questo non si stancò mai di ripetere, ogni volta che ne ebbe occasione, che solo un intervento globale dello Stato, nella varietà delle sue funzioni amministrative, legislative ed, in senso ampio, politiche, avrebbe potuto sicuramente incidere sulle radici della malapianta, avviando il processo del suo sdradicamento.
Sono questi concetti che oggi sentiamo continuamente ripetere nei convegni e nelle tavole rotonde e leggiamo frequentemente sulle colonne dei giornali. Ma all’inizio del decennio era già difficile fare accettare il concetto della esistenza stessa della mafia, spesso definita, ed anche in sede autorevole, “volgare delinquenza” ed è merito di pochi, e di Chinnici in prima linea, l’averne intuito la profonda essenza e pericolosità.
Analogamente dicasi per la diffusione delle droghe e della tossicodipendenza.
Forse in questa legislatura si giungerà finalmente alla modifica delle ormai inadeguate norme della legge del 1975 (aspramente criticata da Chinnici nella conferenza al Rotary Club del 29 luglio 1981), che se non ha favorito ha sicuramente consentito l’espandersi a dismisura del consumo delle sostanze stupefacenti.
Quasi dieci anni fa, in periodo di sostanziale sottovalutazione, se non di indifferenza al fenomeno, Chinnici, ben consapevole di andare contro corrente, intuì la pericolosità di una legge permissiva ed il decisivo valore della prevenzione, assumendosene in prima persona il carico. Innumerevoli furono i suoi interventi in tutte le scuole cittadine, i suoi incontri con professori e studenti, i più esposti alla diffusione del flagello, presiedendo dibattiti, partecipando a tavole rotonde, rispondendo a tutte le domande che gli venivano rivolte, sempre, come sua abitudine, citando dati a casi concreti appresi durante la sua lunghissima esperienza giudiziaria nella materia.
“Dove trova il tempo?” ci domandavamo talvolta i suoi collaboratori, che ben sapevamo come questa attività non scalfiva affatto le sue capacità di smaltire velocemente e proficuamente enormi quantità di lavoro giudiziario.
Lo trovava, lo inventava, con la sua radicata e vorrei dire religiosa convinzione che anche quello era suo indefettibile compito di cittadino; che una lunga e defatigante istruttoria su un omicidio di mafia o su un traffico internazionale di stupefacenti non avrebbe avuto senso compiuto se insieme egli non avesse profuso tra i giovani, che con la sua attività giudiziaria cercava di difendere, anche quei frutti della sua esperienza e della sua cultura che, se ben recepiti, li avrebbero messi in grado di difendersi da se stessi.
E questa lezione ai giovani è quella che ha dato più frutti. Il suo risultato è sicuramente il più stabile punto di non-ritorno dell’azione antimafia di Rocco Chinnici, proseguita poi tra mille difficoltà da Antonino Caponnetto e da molti altri, primo tra tutti Giovanni Falcone, non a caso anche lui vittima designata, e fortunatamente scampata, di analogo attentato.
Al di là dei sempre incerti esiti giudiziari delle grandi inchieste di mafia, la loro stessa celebrazione e la diffusione dei loro principi ispiratori hanno prodotto nei giovani una nuova coscienza, impensabile nelle precedenti generazioni, che rifiuta la mafia e la tentazione di convivere con essa.
Già nel luglio 1983, in una lettera al Presidente della Repubblica, pubblicata nell’appendice di questo libro, giovani studenti palermitani manifestavano fermamente il loro desiderio di liberazione ed invocavano l’intervento globale dello Stato.
Appena due anni dopo altri giovani studenti, tutti studenti palermitani, colpiti nelle loro carni dalla terribile tragedia di via Libertà, della quale chi scrive fu involontario protagonista, dimostravano, e lo dimostrano ancora, il livello della loro profonda e sofferta maturazione, non cedendo a comprensibile rabbiosa reazione ma invocando l’instaurarsi delle condizioni di una vita onesta, ordinata, civile.
Questi giovani sono gli eredi spirituali di Rocco Chinnici, che tanto amò i suoi figli ed i loro coetanei. Sono i possessori di un lascito duraturo. Ad essi si riferisce il cardinale Pappalardo nella sua omelia funebre del 30 luglio 1983: “Conosce il Signore la via dei buoni, la loro eredità durerà nei secoli”.

martedì 29 luglio 2014

Elezione di Juncker: innovazione istituzionale e "parlamentarizzazione" apparente - di Licia Gallo

Elezioni europee: se ne sono dette di tutti i colori. Alcuni hanno giustamente ricordato l'unicità di questa tornata elettorale rispetto alle passate.
Ma perchè?? Cos'avevano di così diverso queste elezioni?

Licia Gallo, con il suo articolo di oggi, ci aiuta a capirlo un po' meglio.

Buona lettura.


L'elezione di Jean-Claude Juncker ai vertici della Commissione europea può essere considerata una innovazione dal punto di vista istituzionale poiché crea un importante precedente che non potrà essere ignorato dalla futura legislatura in poi. Il Trattato di Lisbona stabilisce che il Consiglio europeo, “tenuto conto delle elezioni del Parlamento Europeo” e “deliberando a maggioranza qualificata”, propone al Parlamento europeo un candidato alla carica di presidente della Commissione. 
I nomi tra cui il Consiglio può individuare il proprio candidato non possono essere diversi da quelli presentati dai partiti al momento delle elezioni come candidati alla presidenza della Commissione. Ciò significa che i partiti europei porranno d’ora in poi un’attenzione sempre maggiore nella scelta dei candidati e che, di conseguenza, non sarà possibile per il Consiglio non tenere conto politicamente di queste preferenze. Il risultato è una, si potrebbe dire, apparente parlamentarizzazione del sistema dovuta al fatto di aver preso alla lettera il Trattato di Lisbona.

Nel corso degli ultimi avvenimenti che hanno visto protagonista Renzi in Europa, è prevalso il principio nomina sunt sequentia rerum, allo scopo di elaborare ed approvare un documento programmatico che tracciasse le priorità politiche pluriennali cui anche la Commissione (e ovviamente il suo Presidente) ed il Parlamento europeo dovessero attenersi. Tali priorità politiche, dunque, sono state decise e trascritte in un documento elaborato dal Consiglio con metodo intergovernativo (consultando i Capi di stato e di governo) e non sovranazionale, prima ancora di decidere chi nominare come presidente della Commissione. 
E’ chiaro che ciò si pone in netto contrasto con il maggiore livello di parlamentarizzazione raggiunto, un’ipocrisia malcelata. 
Il Parlamento non è stato consultato su questo tema, non si è espresso.

Lo stesso problema si pone nel coinvolgimento del Parlamento in codecisione con riguardo alle decisioni da prendere sulle risorse proprie per la realizzazione degli obiettivi di crescita a livello federale europeo, così come nello stabilire le modalità con cui spendere i fondi disponibili e indirizzarli a certe categorie di investimenti piuttosto che altre (ovvero ciò che si stabilisce con il documento di policy pluriennale).

Rispetto alle opportunità rappresentate dalla presenza di Juncker a capo della Commissione europea, bisogna considerare l’enunciazione delle priorità politiche e di intervento  dell’ex presidente dell’Eurogruppo, fatta durante il discorso che ha preceduto il voto di fiducia del Parlamento europeo. La prima priorità di Jean Claude Juncker è rafforzare la competitività e stimolare gli investimenti, quindi nei primi tre mesi presenterà un ambizioso pacchetto per lavoro, crescita e investimenti che attraverso la Bei e il bilancio europeo muoverà fino a 300 miliardi di euro in tre anni.

Inoltre, nonostante gli argomenti contrari di Cameron, la scalata di Juncker alla guida dell'esecutivo Ue è stata sostenuta dal Ppe, di cui l'ex presidente dell'Eurogruppo era il candidato, e da un blocco parlamentare formato, oltre che dai conservatori, dai socialisti e rinforzato da liberali e centristi. C’è stata dunque una forte convergenza delle maggiori forze politiche europee sulla scelta di questo candidato, che fondamentalmente rappresenta la continuità politica del sistema.

sabato 26 luglio 2014

Fragole o sangue? - di Gideon Levy

L'autore di questo articolo è Gideon Levy, giornalista israeliano. Scrive per il quotidiano Ha’aretz.
Punto di vista interessante, soprattutto perchè proviene da un israeliano. 
Inoltre è un segnale che, ovviamente, non tutti gli israeliani sono come quei quattro "strani tipi" che assistono ai bombardamenti seduti sul divano sorseggiando un aperitivo e fumando narghilè.

Buona lettura.

Dopo che abbiamo detto tutto ciò che c’è da dire sul conto di Hamas – che è integralista, che è crudele, che non riconosce Israele, che spara sui civili, che nasconde munizioni dentro le scuole e gli ospedali, che non ha fatto niente per proteggere la popolazione di Gaza – dopo che è stato detto tutto questo, e a ragione, dovremmo fermarci un attimo e ascoltare Hamas. Potrebbe perfino esserci consentito metterci nei suoi panni e forse addirittura apprezzare l’audacia e la capacità di resistenza di questo nostro acerrimo nemico, in circostanze durissime.

Invece Israele preferisce tapparsi le orecchie davanti alle richieste della controparte, anche quando queste richieste sono giuste e corrispondono agli interessi sul lungo periodo di Israele stesso. Israele preferisce colpire Hamas senza pietà e senza alcun altro scopo che la vendetta. Stavolta è particolarmente chiaro: Israele dice di non voler rovesciare Hamas (perfino Israele capisce che se lo fa si ritroverà sulla porta di casa la Somalia, altro che Hamas), ma non è disponibile ad ascoltare le sue richieste. Quelli di Hamas sono tutti “bestie”? Ammettiamo pure che sia vero, ma tanto lì stanno e lì restano, e lo pensa anche Israele. Quindi, perché non ascoltarli?

La settimana scorsa sono state pubblicate, a nome di Hamas e della Jihad islamica, dieci condizioni per un cessate il fuoco che sarebbe durato dieci anni. Possiamo anche dubitare che le richieste arrivassero davvero da quelle due organizzazioni, ma comunque erano una buona base per un accordo. Tra di esse non ce n’era neanche una che fosse priva di fondamento.

Hamas e la Jihad islamica chiedono libertà per Gaza. C’è forse una richiesta più comprensibile e lecita? Senza accettarla non c’è modo di mettere fine all’attuale ciclo di uccisioni e di evitarne un altro nel giro di pochi mesi. Nessuna operazione militare – aerea, terrestre o marittima che sia – fornirà una soluzione. Solo cambiando radicalmente atteggiamento nei confronti di Gaza si potrà garantire ciò che tutti vogliono, cioè la tranquillità.

Leggete l’elenco delle richieste e giudicate onestamente se tra di loro ce ne sia anche una sola ingiusta: ritiro dell’esercito israeliano e autorizzazione dei coltivatori a lavorare le loro terre fino al muro di sicurezza; scarcerazione di tutti i prigionieri rilasciati in cambio della liberazione di Gilad Shalit e poi arrestati; fine dell’assedio e apertura dei valichi; apertura di un porto e di un aeroporto sotto gestione Onu; ampliamento della zona di pesca; supervisione internazionale del valico di Rafah; impegno da parte di Israele a mantenere un cessate il fuoco decennale e chiusura dello spazio aereo di Gaza ai velivoli israeliani; concessione ai residenti di Gaza di permessi per visitare Gerusalemme e pregare nella moschea Al Aqsa; impegno da parte di Israele a non interferire con le decisioni politiche interne dei palestinesi, vedi la creazione di un governo di unità nazionale; infine, apertura della zona industriale di Gaza.

Queste sono condizioni civili, i mezzi per realizzarle sono militari, violenti e criminali. Ma la verità (amara) è che tutti se ne fregano di Gaza quando non spara missili contro Israele. Guardate la sorte toccata a quel dirigente palestinese che ne aveva abbastanza delle violenze, Abu Mazen: Israele ha fatto tutto quanto in suo potere per distruggerlo. E qual è la triste conclusione? “Funziona solo la forza”.

La guerra in atto è una guerra per scelta e la scelta l’abbiamo fatta noi israeliani. È vero, quando Hamas ha cominciato a sparare missili Israele non poteva non reagire. Ma contrariamente a ciò che tenta di spacciare la propaganda israeliana, i missili non sono mica piovuti dal cielo senza motivo. Basta tornare indietro di qualche mese: rottura delle trattative da parte di Israele; guerra contro Hamas in Cisgiordania in seguito all’assassinio dei tre studenti di un seminario rabbinico – è dubbio che lo abbia pianificato Hamas – e arresto di 500 suoi attivisti con false accuse; blocco dei pagamenti degli stipendi ai lavoratori di Hamas a Gaza e opposizione di Israele al governo di unità nazionale, che forse avrebbe potuto ricondurre Hamas entro l’agone politico. Chiunque pensi che Hamas avrebbe potuto incassare senza batter ciglio, probabilmente soffre di arroganza, autocompiacimento e cecità.

A Gaza – e in minor misura anche in Israele – si sta versando una quantità terrificante di sangue. Questo sangue è versato invano. Hamas è martellato da Israele e umiliato dall’Egitto. L’unica possibile soluzione sta nella direzione esattamente opposta a quella dove sta andando Israele. Un porto a Gaza, così che possa esportare le sue ottime fragole? Agli israeliani suona come un’eresia. Qui, ancora una volta, si preferisce il sangue (palestinese) alle fragole (palestinesi).

lunedì 21 luglio 2014

Biografia di Giorgio Boris Giuliano, di Emanuele Giuliano.

35 anni fa la mafia ammazzava un mio concittadino: Giorgio Boris Giuliano.
Questa breve biografia è stata scritta dal fratello, Emanuele.

Giorgio Boris Giuliano, Giorgio per noi familiari Boris per i colleghi, è nato il 22 ottobre 1930 a Piazza Armerina. Si stabilì a Messina con la sua famiglia proveniente dalla Libia nel 1941. Durante la sua vita di studente mise in luce le sue qualità sportive militando da Universitario nel campionato di pallacanestro di Serie B nella squadra del C.U.S. Messina. 

Nel 1963, vinto il concorso in Polizia, fu assegnato, su sua richiesta, alla Squadra Mobile di Palermo. Erano gli anni di quella che fu chiamata la “prima guerra di mafia” fra i Greco e i La Barbera in cui Giorgio Boris Giuliano ebbe modo di mettere in luce quelle qualità che lo portarono a essere considerato all’estero uno dei Poliziotti più bravi. Giorgio Boris Giuliano era un uomo sereno e amava la vita, amava la semplicità della vita. Amava i suoi cari ed i suoi figli, credeva nel suo lavoro che svolgeva con profondo senso del dovere mettendo in evidenza le sue peculiari doti di coraggio, acume professionale, capacità organizzative. Amava la gente convinto come era che il ruolo del “poliziotto” è quello, essenzialmente, di essere al servizio dei cittadini per dare loro, senza soluzione di continuità, una giusta dose di tranquillità; il “poliziotto”, sosteneva, deve essere nella strada in mezzo alla gente, perché è li che si insinua il pericolo criminale. 

Sul fronte del contrasto alla criminalità mafiosa la Squadra Mobile di Palermo, durante la dirigenza di Boris Giuliano, ha conseguito notevoli successi sia dal punto di vista giudiziario sia acquisendo una notevole mole di notizie di grande spessore sul piano informativo, i cui sviluppi operativi matureranno negli anni successivi. La sua alta professionalità era supportata dalla perfetta conoscenza del territorio e dell’ambiente in cui operava; dalla invidiabile conoscenza della lingua inglese, dall’avere partecipato ai corsi di specializzazione dell’E.B.I. a Quantico in Virginia che, oltre alle nozioni tecniche e alla notevole esperienza acquisita, gli consentirono di stringere legami a livello personale. Questi legami, questa stima reciproca con i colleghi americani consentirono, nel giugno del 1979, a Giorgio Boris Giuliano, di concludere una importante azione investigativa che dimostrava la certezza della sua ipotesi: che la droga destinata al mercato d’oltreoceano era raffinata a Palermo, infatti sul nastro bagagli dell’Aeroporto di Palermo furono trovate due valigie provenienti dagli Stati Uniti, contenenti seicentomila dollari; qualche giorno dopo all’aeroporto di New York ci fu la conferma del suo teorema, la D.E.A. sequestrò eroina proveniente da Palermo per un valore di dieci miliardi. L’attività di Boris Giuliano si fa sempre più travolgente e penetrante nei mesi precedenti il suo assassinio; individua e persegue gli autori di una feroce rapina ai danni della Cassa di Risparmio; gli arrestati non sono criminali comuni ma fanno parte di una delle più feroci cosche mafiose di Palermo, quella dei “Marchese” di Corso dei Mille; il rinvenimento fortuito di una rivoltella in un bar dava il via ad una operazione di polizia di grande rilievo e importanza; la scoperta di un appartamento che era il rifugio di uno dei più pericolosi criminali dei “Corleonesi”: Leoluca Bagarella, infatti trova le sue fotografie, molte armi, quattro chili di eroina pura e soprattutto una agendina con dentro tanti nomi insospettabili. Ma l’azione investigativa di Boris Giuliano era orientata verso altri obiettivi, egli aveva intuito che dietro la mafia, dietro quell’accumulazione di tesori c’erano anche le Banche in Sicilia e altrove; nell’estate del 1979 l’unico che ficcava il naso nei conti bancari dei mafiosi palermitani era Giuliano; partiva dal ritrovamento di assegni addosso a Giuseppe Di Cristina, il Boss di Riesi ucciso nel 1978; gli era capitato fra le mani un libretto al portatore della Cassa di Risparmio con trecento milioni intestato a un nome di fantasia; si scoprirà poi che quel nome era quello usato da Michele Sindona nel suo viaggio dall’America a Palermo e che il denaro era suo. E c’era un’altra indagine che Boris Giuliano non aveva mai lasciato, quella riguardante il giornalista Mauro de Mauro scomparso una sera di Settembre del 1970; aveva perfino espresso una promessa ad un giornalista, che, proprio, in quell’estate del 1979, chiedeva se il caso De Mauro fosse ormai chiuso: “No – disse – scoprirò la verità su De Mauro, arresterò i suoi assassini, quanto prima ve ne darò conferma”. 

Queste le tre azioni investigative su cui lavorava Boris Giuliano: il traffico di droga tra Palermo  e l’America, l’affare Sindona, il caso De Mauro, quale delle tre è stata determinante nella decisione della sua eliminazione?

sabato 24 maggio 2014

Una strage come in Libano, di Attilio Bolzoni

Articolo di Attilio Bolzoni, risalente al 24 maggio 1992.

L'enorme boato alle 17 e 58, La vendetta contro il "Grande Nemico" appena atterrato a Punta Raisi.
Una strage come in Libano
La mafia fa saltare la strada con una tonnellata di esplosivo. Cinque i morti: il giudice, la moglie e tre uomini della scorta.

PALERMO - E' morto, è morto nella sua Palermo, è morto fra le lamiere di un'auto blindata, è morto dentro il tritolo che apre la terra, è morto insieme ai compagni che per dieci anni l'avevano tenuto in vita coi mitra in mano. E' morto con sua moglie Francesca. E' morto, Giovanni Falcone è morto. Ucciso dalla mafia siciliana alle 17,58 del 23 maggio del 1992.

La più infame delle stragi si consuma in cento metri di autostrada che portano all'inferno. Dove mille chili di tritolo sventrano l'asfalto e scagliano in aria uomini, alberi, macchine. C'è un boato enorme, sembra un tuono, sembra un vulcano che scarica la sua rabbia. In trenta, in trenta interminabili secondi il cielo rosso di una sera d'estate diventa nero, volano in alto le automobili corazzate, sprofondano in una voragine, spariscono sotto le macerie. Muore il giudice, muore Francesca, muoiono tre poliziotti della sua scorta. Ci sono anche sette feriti, ma c'è chi dice che sono più di dieci. Alcuni hanno le gambe spezzate, altri sono in fin di vita.

Un bombordamento, la guerra. Sull'autostrada Trapani-Palermo i boss di Cosa Nostra cancellano in un attimo il simbolo della lotta alla mafia. Massacro "alla libanese" per colpire e non lasciare scampo al Grande Nemico. Una tonnellata di esplosivo, un telecomando, un assassino che preme un tasto. Così uccidono l'uomo che per dieci anni li aveva offesi, che li aveva disonorati, feriti. La vendetta della mafia, la vendetta che diventa morte in un tratto di autostrada a cinque chilometri e seicento metri dalla città, la città di Giovanni Falcone, la città dove pochi lo amavano e molti lo odiavano.

La cronaca della strage comincia all'aeroporto di Punta Raisi quando su una pista atterra un DC 9 dell'Alitalia e subito dopo un jet del Sisde, un aereo dei servizi segreti proveniente da Roma. Sopra c'è Giovanni Falcone con sua moglie Francesca. Sono le 17,48 quando il jet è sulla pista di Punta Raisi. E sulla pista ci sono come ogni sabato pomeriggio tre auto che lo aspettano. Una Croma marrone, una Croma bianca, una Croma azzurra. E' la sua scorta, la solita scorta con Antonio, Antonio Montanari, agente scelto della squadra mobile che appena vede il "suo" giudice che scende dalla scaletta si infila la mano destra sotto il giubbotto per controllare la bifilare 7,65.

Tutto è a posto, non c'è bisogno di sirene, alle 17,50 il corteo blindato che trasporta il direttore generale degli Affari penali del ministero di Grazia e giustizia è sull'autostrada che va verso Palermo. Tutto sembra tranquillo, ma così non è. Qualcuno sa che Falcone è appena sbarcato in Sicilia, qualcuno lo segue, qualcuno sa che fra otto minuti la sua Croma passerà sopra quel pezzo di autostrada vicino alle cementerie. La Croma marrone è davanti, centotrenta all'ora. Guida Vito Schifani, accanto c'è Antonio, dietro Rocco Dicillo. E corre, la Croma marrone corre seguita da altre due Croma, quella bianca e quella azzurra. Sulla prima c'è il giudice che guida, accanto c'è Francesca Morvillo, sua moglie, anche lei magistrato. Dietro un altro agente di scorta. E altri quattro sulla Croma azzurra. Un minuto, due minuti, la campagna siciliana, l'autostrada, l'aeroporto che si allontana, quattro minuti, cinque minuti, il DC 9 dell'Alitalia proveniente da Roma che scende verso il mare e sorvola l'A 29.

Sono le 17,57, Palermo è vicina, solo sette chilometri, solo pochi minuti. Lo svincolo per Capaci è lì, c'è un po' di vento, ondeggia il cartellone della "Sia Mangimi", si muovono gli alberi, il mare è increspato. Ecco, sono quasi le 17,58. La Croma marrone è sempre avanti, il contatto radio con le Croma bianca c'è, la "linea" è silenziosa, vuol dire che tutto va bene, non c'è problema. Ma dietro, intorno, da qualche parte, c'è l'assassino, ci sono gli assassini che aspettano Giovanni Falcone.

Sono le 17,58. C'è una curva larga, c'è un rettilineo di 180 metri, c'è un'altra piccola curva. E c'è un sottopassaggio prima di arrivare ad una specie di colonna grigia con su scritto "Cementerie siciliane". Il cartello che indica l'uscita per Isola delle Femmine è a qualche metro, più avanti ci sono due gallerie. Sempre buie, sempre mal illuminate. Sono le 17,58 e Salvatore Gambino, coltivatore diretto di trentaquattro anni, passeggia su un ponticello e guarda le auto che sfrecciano sull'autostrada. Sono le 17,58 e una Fiat Uno con una coppia di austriaci va verso Trapani seguita da una Opel Corsa di colore rosso. Sono le 17,58 quando la mafia compie la sua vendetta. "Ho visto una fiammata e poi ho sentito un boato...forse prima ho sentito il boato e poi ho visto del fumo nero", racconterà un'ora dopo confuso il coltivatore Salvatore Gambino a un carabiniere. 17,58, l'ora del massacro, l'ora dell'infamia, dell'orrore, della morte. Il lampo, il tuono, la strada si apre per cinquanta metri verso Palermo e per cinquanta metri verso Trapani.

Gli oleandri che dividono le due carreggiate dell'autostrada A 29 bruciano, l'aria è irrespirabile, quintali di asfalto vengono catapultati verso il cielo. E' l'esplosione, sono i mille chili di tritolo che brillano, che fanno strage, che fanno morte. I mafiosi li avevano piazzati in una specie di fossa a un metro dal sottopassaggio che taglia l'autostrada. Hanno aspettato Falcone, hanno aspettato la Croma marrone e le altre due auto blindate, hanno aspettato l'attimo per fare clic e uccidere il Grande Nemico. Solo trenta secondi, solo trenta secondi dal lampo e dal tuono alla strage e alla morte. Quando il tritolo esplode sulla strada si apre una buca, una diga, una fossa di una cinquantina di metri. "Come il cratere di un vulcano", dirà poi il procuratore capo di Palermo Piero Giammanco. Dentro il cratere del vulcano finisce per un istante la Croma marrone. Solo per un attimo. Poi verrà scaraventata lontana, un volo di cinquanta, sessanta, ottanta, cento metri. Un volo dall'altra parte dell'autostrada, verso il mare, in un campo di ulivi.

Muore Antonio, muore Vito, muore Rocco. L'asfalto schizza per aria Muoiono tutti, poveri ragazzi. Un secondo dopo la Croma bianca guidata da Giovanni Falcone piomba nel cratere, si infossa, si alza, si schianta a terra, si rialza, si riabbassa. I primi tre metri di Croma vengono tranciati dal tritolo, l'altro metro e mezzo di automobile si accartoccia. I pezzi di asfalto schizzano per aria, volano verso il mare e verso la montagna. Giovanni Falcone viene schiacciato dall'urto del tritolo e dall'auto che sbatte impazzita, Francesca finisce sui vetri in frantumi, l'autista che sta dietro si chiama Giuseppe Costanza. E' in trappola, prigioniero fra le lamiere, ma vivo, vivo. La Croma marrone è nel campo di ulivi ma la Croma di Falcone resta ferma, bloccata, in mezzo alle macerie, in mezzo al fumo nero, in mezzo al fuoco.

Tre secondi dopo la Croma bianca del giudice Giovanni Falcone sarà ricoperta di terra e di cemento, di fuliggine e di catrame. "Io ero sul cavalcavia e mi sono messo a correre come un matto, correvo, correvo con il cuore in gola... dopo qualche minuto, forse tre, forse quattro, ho estratto dalla Croma di colore bianco il corpo di una donna...poi ho provato ha tirare fuori anche il corpo dell'uomo...ho saputo poi che era Falcone, il giudice Giovanni Falcone", ricorda fra le lacrime il coltivatore diretto Salvatore Gambino. Il corpo di Francesca Morvillo, il corpo di Giovanni Falcone. L'autista non l'aveva visto, era sotto i sedili, era sotto le macerie.

Ore 17,59, autostrada Trapani-Palermo, chilometro 5,6. Una Croma non c'è più, un'altra è disintegrata, la terza, quella azzurra, è un ammasso di ferri vecchi. Ma dentro i quattro agenti sono vivi, feriti ma vivi. Feriti come altri venti uomini e donne che erano dentro le auto che passavano in quel momento fra lo svincolo di Capaci e Isola delle Femmine, fra le due gallerie e la cementeria, fra il sottopassaggio e la curva larga dove c'era una volta il cartellone della "Sia Mangimi". Dove c'erano i lampioni gialli e celesti che adesso sembrano scheletri, dove c'erano gli alberi che adesso sembrano canne nere, dove c'era una strada che adesso sembra un canale dove è passata la lava vomitata da un vulcano. Con decine e decine di automobili piegate, con le tutte le linee telefoniche della zona saltate, con l'nergia elettrica che se ne va improssivamente , con i vetri delle ville e dei palazzi nel raggio di chilometri che vanno in frantumi, con una grande nuvola nera che avvolge tutto e tutti.

L'inferno, l'inferno per uccidere il giudice Giovanni Falcone. L'inferno, l'allarme, la centrale operativa della polizia che va in tilt e i funzionari della Questura che parlano via radio della "nota personalità" che stava passando alle 17,58 sull'autostrada che da Punta Raisi porta a Palermo. Chi è questa "nota personalità"? Giallo per sette minuti, giallo e paura. Poi finalmente si capisce, poi finalmente la nota personalità ha un nome e un cognome, è Giovanni Falcone, è il giudice, è il direttore degli Affari penali del ministero di Grazia e giustizia. E comincia la sabanda di voci. E comincia l'altalena delle emozioni, i tuffi al cuore, i timori che si intrecciano. E' leggermente ferito, è gravemente ferito, è in fin di vita, è salvo, è quasi morto, è salvo, è ferito, è lui, non è lui.

Quanta paura, quanta speranza, quante lacrime alle 18,47. Si, alle 18,47 un medico dell'ospedale civico firma il cartellino "d'entrata" del giudice italiano più famoso nel mondo. Due parole, solo due parole: "arresto cardiaco". Giovanni Falcone è arrivato morto in ospedale, è arrivato già morto. E sull'ambulanza che lo trasportava c'era la sua borsa di pelle marrone. Piena di carte, piena di fogli. C'era anche un libro, "Il ruolo del Pubblico ministero". Su un'altra ambulanza Francesca, la moglie, giudice di tribunale, magistrato come il marito, magistrato come il fratello, Alfredo, sostituto procuratore del pool antimafia di Palermo. "Ha le gambe rotte", diceva alle otto di sera un infermiere del Civico. "Ha il ventre aperto", raccontava un chirurgo alle dieci di sera. E' in coma, no si salva, è in fin di vita, è fuori pericolo. Povera Francesca, è morta, è morta anche lei con il suo amore.

A sera tarda, a tardissima sera arriva la solita rivendicazione della Falange Armata, arriva la notizia del lutto cittadino in memoria di Giovanni Falcone, arriva la notizia del consiglio comunale che si riunisce in seduta straordinaria con quello provinciale. Arriva lo "sgomento" della città di Palermo, la "costernazione" della capitale siciliana per l'uomo simbolo, per l'uomo amato e odiato, per il giudice che ha mandato sotto processo mille uomini d'onore. Gliel'avevano giurata a Giovanni Falcone. gliel'avevano giurata tredici anni fa: "Morirai, lo sai che prima o poi morirai...". E lui lo sapeva. Ma ridendo, con quella sua faccia che alcune volte lo rendeva antipatico anche gli amici che lo volevano bene, lui rispondeva: "Per me la vita vale come il bottone di questa giacca, io sono un siciliano, un siciliano vero". E rideva, rideva, Giovanni Falcone.