sabato 30 marzo 2013

Le mire della Cina sul gas del Circolo Polare - Gabriele Battaglia


Interessante articolo letto qualche giorno fa su LinkIesta.it.
Buona lettura.
PECHINO - Cosa volete che sia un Nobel, di fronte al ben radicato pragmatismo cinese e all'altrettanto consolidato appeasement scandinavo? Così, a meno di tre anni dall'assegnazione della massima onorificenza per la pace al dissidente Liu Xiaobo da parte del comitato norvegese – cosa che fece infuriare Pechino e scatenò una guerra diplomatica –Oslo si dichiara ben disposta ad accettare la Cina, in qualità di osservatore, nel Consiglio Artico: l’organizzazione che riunisce gli otto Paesi che si affacciano sulla regione polare (Canada, Russia, Norvegia, Danimarca, Islanda, Usa, Svezia e Finlandia).
È un'istituzione nata nel 1996 per regolare il rapporto tra gli Stati e le popolazioni indigene dell’area, in direzione dello sviluppo sostenibile e della conservazione ambientale. Oggi gli abitanti passano decisamente in secondo piano di fronte all'opportunità di spartirsi le risorse della regione polare, in prospettiva sempre più accessibili a causa dello scioglimento dei ghiacci. Un tempo importante soprattutto per la pesca e per ragioni strategiche (specialmente ai tempi della guerra fredda), l'Artico è ritornato improvvisamente in auge nel 2008 quando, in contemporanea con i picchi record dei prezzi del petrolio, lo US Geological Survey annunciò che il 30 per cento delle riserve non ancora scoperte di gas naturale si troverebbero dalle parti del Circolo Polare, in compagnia di petrolio, carbone, terre rare e uranio.
Il problema è: di chi sono? Un anno prima, nel 2007, un sommergibile di Mosca aveva piantato la bandiera russa sul fondale marino nell'esatto punto in cui si ritiene ci sia il Polo Nord geografico. Intuizione geniale e gesto dal grande valore simbolico, a sancire un atteggiamento da sempre assertivo: la Russia si concepisce infatti primus inter pares in quanto ha la più ampia linea costiera che si affaccia sull'Artico. È la cosiddetta “teoria dei settori”, formulata per la prima volta, a inizio Novecento, dal Canada – non a caso, l'altro grande Paese con migliaia di chilometri di costa che guardano a nord – e che applica la geometria della sfera alla superficie terrestre: il “settore” è una fetta triangolare di Artico che ha come base la costa nord di uno Stato polare e come lati i due meridiani più a est e a ovest dello Stato stesso, che salgono su fino al Polo Nord. In base alla teoria, tutte le terre, le acque e i fondali contenuti in questa “fetta”, sarebbero di sfruttamento esclusivo dello Stato in questione.
Fin dall'inizio del secolo scorso, gli altri Paesi artici applicavano invece le teorie di “occupazione effettiva” e “mare liberum”: chi primo arriva si aggiudica le terre, mentre il mare resta a disposizione di tutti. Ne beneficiavano Stati tecnologicamente più avanzati della Russia (come la Norvegia e gli Usa), che potevano contare sulle spedizioni di aerei e dirigibili e che, soprattutto, con la teoria dei settori, avrebbero ottenuto una fetta di torta molto più piccola. Di recente, Mosca ha aggiornato la vecchia teoria con una venatura scientifica, sostenendo che l'area a nord delle sue coste è di fatto la continuazione della piattaforma continentale russa. Prova ne sia la “dorsale di Lomonosov” – dicono al Cremlino - una catena montuosa sottomarina che arriva fino al Polo.
Il Consiglio Artico è diventato così un'istituzione improvvisamente importante, politica, sotto la cui egida si succedono i trattati: Risoluzione della controversia sul Mare di Barents tra Russia e Norvegia (2010), Accordo di ricerca e di soccorso (2011), istituzione di un Segretariato Permanente del Consiglio Artico (gennaio 2013), tentativi di trovare un accordo vincolante su eventuali fuoriuscite di petrolio (atteso nel 2013), Codice IMO (International Maritime Organization) per la navigazione polare (atteso pr il 2014).
Di fronte a tutto questo attivismo, non c'è da stupirsi che anche Cina, Giappone, Corea del Sud e Unione Europea stiano facendo di tutto per mettere un piede nel Consiglio, che si riunirà per deliberare il 15 maggio a Kiruna, nella Lapponia svedese. Le grandi manovre di Pechino sono ufficialmente iniziate circa un anno fa, con la visita dell'allora premier Wen Jiabao in Europa. Prima tappa? “Berlino”, direte voi. 
Nient'affatto: trecentoventimila islandesi ebbero allora la precedenza sui tedeschi (secondi), svedesi (terzi) e polacchi (quarti). Wen, di formazione geologo, ammirò i geyser, sbaciucchiò bambini biondissimi e imbacuccatissimi e incassò il via libera per l'Artico dalla pari grado Islandese Johanna Sigurdardottir: “Wen Jiabao è un riformista – disse la signora – ci siamo trovati d’accordo su molti punti”. Negli anni del suo mandato, “nonno Wen” si era creato una vera e propria specializzazione nel portare conforto sui luoghi dei disastri – asili che crollano, treni che deragliano – e l’Islanda del default finanziario rientrava più o meno nella stessa categoria: in quell'occasione, i due Paesi firmarono sei accordi di cooperazione sulla geotermia, l'esplorazione petrolifera nell’Artico, il fotovoltaico, l’oceanografia e la ricerca scientifica polare.
In seguito, Pechino ha continuato a corteggiare gli altri Paesi e, giusto la settimana scorsa, anche la restia Norvegia si è finalmente accodata. Il ministro degli esteri di Oslo, Espen Barth Eide, ha dichiarato di appoggiare fortemente la domanda della Cina. Secondo lui, “l'apertura a più osservatori nel Consiglio Artico farà sì che si sentano membri del nostro club”, riporta il britannico Guardian. “Così, il pericolo che si facciano un club in proprio sarà minore”. Non fa una grinza. L'ultimo flirt della Cina è con la Groenlandia. Il parlamento della nazione divenuta recentemente autonoma, ha in esame un progetto minerario da 2,3 miliardi di dollari gestito dalla britannica London Mining, che dovrebbe rifornire la Cina con 15 milioni di tonnellate di minerale di ferro ogni anno.
Oltre alle materie prime, l'Artico fa tuttavia gola anche per il “passaggio a nord-est” (Northern Sea Route): la nuova rotta, resa possibile dal progressivo arretramento dei ghiacci, che mette in comunicazione Atlantico settentrionale e Pacifico attraverso il mare Glaciale Artico. Attualmente, l'80 per cento dell'energia che la Cina importa attraversa lo stretto di Malacca, un passaggio stretto e affollato per una rotta decisamente lunga. Percorrere il passaggio a nord-est farebbe risparmiare circa 4mila miglia marine, per una media di due settimane di viaggio e 300mila euro su ogni nave che naviga dal nord Europa a Shanghai. Pechino vorrebbe iniziare un servizio commerciale su questa rotta entro la prossima estate. A stappare lo champagne non sono solo i cinesi, ma anche le compagnie di navigazione scandinave, che già intravedono le opportunità di business con il Dragone.
L'equilibrio però è delicato: l'Artico è anche un ecosistema fragile e la Cina, per sua natura, fa di solito la parte dell'elefante nel negozio di cristalli. Il progetto groenlandese, per esempio, rischia di turbare un sottile equilibrio non solo naturale, ma anche umano. Si parla infatti dell'arrivo di un team di 3mila lavoratori cinesi su una popolazione complessiva di 57mila persone: i sudditi del Celeste Impero diventerebbero così improvvisamente il 5 per cento degli abitanti della Groenlandia.
Non sarebbero per altro gli unici asiatici a sconvolgere la demografia artica. Sapete per esempio qual è la terza comunità dell'arcipelago delle Svalbard (tra la Norvegia e il Polo) in termini numerici, dopo norvegesi e russi? I thailandesi, o meglio “le” thailandesi: una cinquantina di persone, sulle 2500 complessive, arrivate a seguito della prima donna – si dice – sposata da un marinaio scandinavo. Nelle immense distese artiche, i numeri appaiono ancora insignificanti. Tuttavia indicano un trend. Gli addetti dell'ambasciata statunitense di Reykjavik, Islanda, sono settanta. Quella cinese, di nuovissima costruzione, è in grado di ospitarne cinquecento. 
Øyvind Paasche, geologo, esperto di mutamento climatico, direttore del Bergen Marine Research Cluster e collaboratore del sito OpenDemocracy, non ha dubbi: qualcosa, dalle parti del Polo Nord, si sta muovendo. E anche velocemente.
“Quell'ecosistema sta cambiando così velocemente – ha detto a Linkiesta – che è difficile capire da che parte cominciare: dal patrimonio ittico, dallo scioglimento dei ghiacci, dai cambiamenti meteorologici? La scienza politica è molto lenta a comprendere l'evoluzione dell'Artico, che è una sfida per tutti. Gli otto stati artici fanno cartello e tendono a escludere gli altri, ma è fondamentale che anche l'Unione Europea e la Cina riescano a interagire”.
L'Artico è decisamente la nuova frontiera.

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