mercoledì 24 luglio 2013

Economist: la primavera araba è un'onda che non torna indietro

Nelle fasi di cambiamento le fotografie più fedeli sono quelle che vengono mosse.
Questo può riassumere l'idea che scorre tra le righe del rapporto dell'Economist sulle primavere arabe.
Il presente articolo è di F.L., tratto da Staffetta Quotidiana.

Buona lettura.

Regimi dittatoriali collassati e diffusione della democrazia sono solo alcune delle conseguenze della Primavera Araba. Ma quali sono le prospettive per questi Paesi? “Qualcuno dice che la primavera araba si è trasformata in un inverno islamico”. Uno speciale dell'Economist analizza lo stato delle rivoluzioni arabe tra riforme e spinte verso la conservazione: politica, cultura, religione e risorse energetiche.
La primavera è finita. Ma una nuova primavera è sempre in arrivo. Gli sconvolgimenti che hanno ridisegnato in profondità la vita politica e sociale del mondo arabo, scoppiati due anni fa, si sono trasformati in una fase di ambigua tranquillità, agitata da scosse improvvise e allarmanti, come la recente crisi egiziana. Il numero dell'Economist della settimana scorsa dedica il titolo di copertina a una domanda: “La primavera araba ha fallito?”. Domanda che, per come è formulata, sembra suggerire un'implicita risposta: qualcosa è andato storto. Nel lungo articolo che apre l'inserto interamente dedicato ai Paesi arabi sembra effettivamente che la tesi sia quella di una rivoluzione sostanzialmente mancata: “Quei giorni esaltanti e pieni di speranza sono passati. Lo stato d'animo che attraversa il mondo arabo è adesso cupo”, si legge sul settimanale economico. E ancora: “Qualcuno dice con amarezza che la primavera si è trasformata in un inverno islamico”.
Per un primo momento infatti, dittature in campo da decenni sono collassate una alla volta e col montare delle proteste – che hanno incendiato prima Tunisia, Libia, Egitto e Yemen – anche altri governi arabi hanno annunciato riforme politiche e promesso una maggiore spesa pubblica con l'intento di offrire concessioni allo scopo di rasserenare cittadini che venivano contagiati dalle sollevazioni. Il virus della democrazia, che ha infettato le coscienze dei cittadini arabi, ricordava invece agli occidentali le liberazioni degli anni sessanta del Novecento, tanto che “l'eccezione araba – l'apparente incapacità di questi stati neo-patriarcali di muoversi verso norme politiche condivise da gran parte del mondo – è sembrata essere superata”.
Il sospetto che l'Economist non vuole trascurare è che in una seconda fase possa accadere ciò che si è visto in Iran anni fa: che cioè la democrazia possa essere usata come un veicolo per legittimare nuove forme di autoritarismo. L'avanzare delle libertà individuali potrebbe infrangersi contro una forza di segno inverso, capace di riassorbire tutto ciò che si è conquistato. L'approccio con cui si apre questa analisi è dunque attento nel mettere in campo tutte le preoccupazioni e i pericoli nascosti in una instabilità politica duratura, resi evidenti dalla caduta del presidente Morsi da parte dell'esercito egiziano.
Quanto agli analisti invece, come sottolinea l'Economist, questi sono meno preoccupati dalle vere intenzioni degli islamici che non dal caos e dalla prolungata fase di transizione politica che per ora non ha sradicato l'origine da cui sono partite tutte le rivolte: i problemi sociali. Per ora infatti, il diritto al voto e una maggiore libertà di espressione non hanno portato a più posti di lavoro né hanno illuminato le previsioni di un futuro che si mostra ancora incerto e pieno di ombre. Il giudizio di partenza dell'Economist sembra essere dunque negativo: “nessun Paese arabo è emerso come modello da seguire per gli altri”. E ancora: “la disperazione sembra vincere sulla speranza”. Non manca infatti di registrare casi in cui si riscontrano effetti indesiderati della primavera: lì dove soffia un vento di nuova tirannia, come nel caso del Bahrain, per non parlare della situazione in Siria. Qui, ciò che era stato innescato come una protesta contro il regime è virato verso un conflitto che ha portato a oltre 100 mila morti. È proprio la possibilità che le rivolte popolari possano trasformarsi in guerre civili ciò a cui si aggrappano i regimi che provano a proteggere il loro potere. Le stesse monarchie petrolifere, ricorda l'Economist, hanno ristretto le libertà e celato le forme di dissenso sotto una coltre di normalità.
Eppure, all'interno dei vari temi di cui si occupa il report – che si tratti del rapporto tra religione e politica, della condizione dei giovani, della rappresentanza delle donne o degli squilibri delle risorse economiche della regione – nei ragionamenti e nelle analisi scorre la consapevolezza che questo giudizio è una “valutazione prematura”. Se si osservano altre esperienze del passato infatti non si può non notare che le transizioni viaggiano su periodi di tempo più estesi. Non solo mesi. A volte anni. A volte decenni.
Il consiglio dunque che emerge da queste 15 pagine di speciale è di non prendere la situazione attuale come materia per un bilancio definitivo, ma al contrario, di pensare che la Storia si muove per processi lenti e che raramente ciò che appare in superficie è fedele a ciò che circola nelle zone più profonde.
Tra i problemi messi a fuoco negli articoli che ricompongono il mosaico variegato delle società arabe (un Islam che va da posizioni riformiste al fondamentalismo religioso) c'è lo squilibrio nella diffusione delle ricchezze, col possesso degli idrocarburi concentrato in poche mani. L'Arabia Saudita, per esempio, possiede da sola la maggior parte delle riserve di petrolio. Solo otto Paesi dei 19 del mondo arabo si stanno arricchendo grazie all'export di energia. Nel Qatar il 14% delle famiglie è milionaria: “la proporzione più alta di qualsiasi altro Paese al mondo”. E così la media del reddito dei Paesi del Golfo è di circa 50 volte superiore a quella dello Yemen, del Sudan o della Mauritania. I paesi arabi più poveri non diventeranno mai come il Qatar, ma molti, come Yemen, Tunisia e Sudan stanno già esportando greggio o gas e il Marocco spera di poter presto puntare sulle esplorazioni offshore.
Altre preoccupazioni riguardano i giovani: “la disoccupazione giovanile nei Paesi arabi è doppia rispetto alla media globale” con conseguenze che hanno ricadute culturali come i ragazzi che lasciano le case più tardi e l'età del matrimonio che si sposta in avanti.
Che accadrà? Forse “altri disordini quasi certamente nuovi spargimenti di sangue sono in arrivo”. Difficoltà e minacce vengono da più fronti. Le tentazioni del neoliberismo e le spinte sotterranee del radicalismo religioso. Con gli under 30 sempre più alfabetizzati e connessi attraverso le televisioni satellitari e internet (non è un caso che in alcuni Paesi si sia verificata una stretta contro i dissidenti con l'arresto di figure che si sono espresse criticamente nei confronti dei regimi, o introducendo nuove norme sui raduni pubblici). Il tentativo dell'Economist di scattare una fotografia più dettagliata possibile della situazione dunque sfocia in una constatazione. Riassumibile con le parole di Paul Salem, direttore del Carnegie Centre di Beirut: una volta che un'onda è partita questa non torna indietro. L'unico limite di questa analisi dunque è anche il suo maggiore contributo al dibattito: bisogna sempre ricordare che nelle fasi di cambiamento le fotografie più fedeli sono quelle che vengono mosse.

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